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Il blog di Oreste Patrone


Il tramonto dei Padrini

Il 13 marzo del 2019, Frank Calì, capo della famiglia Gambino, viene freddato davanti alla sua casa a Staten Island con sei colpi di pistola. La dinamica sembra uscita da una scena tagliata dei Sopranos, ma la verità è molto meno lirica. L’assassino, tale Anthony Comello, è un ragazzo problematico, ossessionato da teorie cospirazioniste e da QAnon, ma soprattutto senza legami con le famiglie. Nessuna faida interna, dunque, nessun regolamento di conti: la morte del Padrino è solo il gesto privo di movente compiuto da un giovane mentalmente disturbato.

L’omicidio di Calì resta, tuttavia, un fatto storico. È il primo di un capo della mafia a New York negli ultimi dieci anni e quello di maggior profilo nella famiglia dei Gambino da quando, nel 1985, John Gotti ordinò di uccidere il boss di allora, Paul Castellano, per prendere il suo posto dell’organizzazione. Tuttavia, tra l’agguato in grande stile a Castellano, crivellato dai colpi delle mitragliatrici, e l’assurdità dell’omicidio Calì, c’è un intero mondo che è cambiato.

Cosa Nostra americana, un tempo regina indiscussa della criminalità negli Stati Uniti, è ormai ridotta all’ombra di sé stessa. Quella che un tempo era una struttura capillare, feroce e silenziosa è stata smantellata pezzo dopo pezzo da indagini andate avanti decenni, da intercettazioni, processi e soprattutto pentiti. La figura del collaboratore di giustizia ha fatto crollare il muro dell’omertà, portato alla luce dinamiche interne, alleanze, tradimenti insieme alla quotidianità di un mondo che avrebbe dovuto rimanere invisibile. Tommaso Buscetta, Salvatore Gravano e Michael Franzese sono solo alcuni dei nomi di uomini che con le loro testimonianze hanno svuotato dall’interno l’edificio mafioso, rivelandone la fragilità.

Eppure, nonostante la decadenza, quella narrativa continua ad affascinare molti. Me, senz’altro, forse perché su di me l’immaginario ha sempre avuto più forza della cronaca. C’è qualcosa di disturbante ma anche irresistibile nel racconto di mafia: la capacità di mostrare un mondo parallelo, governato da leggi e da rituali, da un’etica distorta ma ferrea e da una giustizia che appare certa e implacabile.

Il cinema, poi, ci ha messo del suo.
Il Padrino, Scarface, Quei bravi ragazzi, Donnie Brasco, Casinò: capolavori che hanno contribuito a costruire un’estetica del crimine, come ci racconta anche Emilaino Morreale nel suo libro “La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema [1949-2019]”. La realtà, come mostra la cronaca, è ben diversa. Il mito ha finito per inghiottire la verità, come sempre accade quando la narrativa diventa più seducente della storia.

Frank Calì era un capo all’antica, un uomo rimasto invisibile per anni, cresciuto negli anni ’80 quando i Gambino facevano ancora paura. La sua morte, grottesca e priva di senso criminale, ha chiuso simbolicamente un’epoca. Non ci sono più bravi ragazzi, non c’è più nessuna commissione che decide la pace o la guerra tra famiglie. E la versione del sogno americano all’italiana – quello delle strade lastricate d’oro, da conquistare col sangue e col silenzio – è diventato un ricordo, buono solo per la nostalgia di quelli che hanno bisogno a tutti i costi di un passato epico da cui trarre un po’ di luce da gettare su un presente deludente.

Mentre le mafie globali si muovono oggi nel cyberspazio e nelle borse, tra traffici internazionali, cryptovalute e nuovi modelli di business, resta il fascino decadente di un’epoca giunta al tramonto, di un codice d’onore che non ha in realtà mai avuto nulla di onorevole.

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