Durante un incontro occasionale tra sconosciuti o quasi, qualcuno nomina il proprio cane. Non so bene come succeda, ma succede. Per fortuna, non sempre. A volte la cosa muore lì, ma può capitare che ci siano altre persone interessate all’argomento, magari altri proprietari, e che si venga risucchiati in una spirale che non lascia scampo.
Finora non è mai capitato che la conversazione fosse interessante. Il livello oscilla mediamente tra l’aneddotica quotidiana e i luoghi comuni più triti sull’educazione e la convivenza. Così, mentre intorno a me ci si scambiano storie di buffi dispetti e danni inenarrabili, spazi negati e divieti incomprensibili, la mia mente si rifugia altrove. In luoghi dove c’è apertura mentale, empatia, cultura cinofila autentica e, dio non voglia, anche un po’ di scienza. Dove i cani non sono surrogati né pretesti per sentirsi migliori degli altri e dove le parole non servono solo a riempire di banalità il silenzio, affrettando la morte dell’universo con un aumento ingiustificato dell’entropia.
Ma c’è anche un altro motivo, più personale. Chi avvia questo tipo di discussioni, di solito lo fa per un bisogno di scambio, di confronto, per cercare qualcun altro in cui riconoscersi. O, quanto meno, per un noioso ma innocuo baratto di figurine: io ti racconto una cosa buffa del mio cane, tu me ne racconti una del tuo e insieme ci facciamo una risata pensando a quanto siano adorabili questi pasticcioni che ne combinano di tutti i colori rendendoci la vita impossibile e la casa un disastro, ma che alla fine “danno tanto amore”. Dare amore è la funzione prioritaria del cane, non dimentichiamocelo — sostanzialmente, il cane è una power bank affettiva.
Costoro osservano il gruppo, ne studiano le reazioni, cercano sguardi complici per capire se c’è qualcun altro interessato a partecipare. Poi, a un certo punto, succede che qualcuno si gira verso di me.
«E tu? Hai cani?»
Maledizione. Si sono accorti di me.
Potrei mentire, dire che non ce l’ho e sperare che la conversazione muoia di morte naturale o prosegua nel solco tracciato dai suoi promotori iniziali. Perché ormai non è la prima volta, conosco il copione a memoria. Il problema è che raramente nel gruppo sono tutti sconosciuti, qualcuno che mi conosce c’è sempre e magari, in uno slancio di entusiasmo, costui risponde al posto mio: «Sì, ha una bellissima cagnona: Kyra!»
«Dai! Che cane è?»
Iniziamo col dire che questa domanda non la capisco proprio. Io non la faccio mai. I cani non sono mica automobili di cui confrontare marca, modello e prestazioni. Che senso ha? Eppure arriva sempre, immancabile. Io non voglio negare l’identità e il retaggio di Kyra — ne sono orgoglioso — ma so cosa comporta la risposta. In nove casi su dieci, vuol dire imprimere una svolta alla conversazione, fino a quel momento rimasta sui binari delle solite, innocue banalità, e inaugurare il filone gerarchie, polso duro e capibranco. Per questo, solitamente, fingo di non avere sentito o sorrido come farebbe uno straniero che non capisce la lingua ma non vuole risultare scortese. Tuttavia, se non funziona e l’altro m’incalza con lo sguardo, mostro direttamente una foto: «Lei è Kyra»
Osservo le reazioni e attendo la terza domanda, che arriva puntuale: «È impegnativa?»
Quanto vorrei che fosse facile rispondere. Il fatto è che impegnativo/a è un’espressione apparentemente neutra, ma che nel tempo si è caricata di sfumature ambigue e insidiose. Spesso è una sorta di scorciatoia semantica per indicare cani di taglia grande, energici o con tratti comportamentali marcati – soggetti che, insomma, richiederebbero più impegno nella gestione quotidiana, soprattutto in termini fisici.
Talvolta è solo ignoranza, il più delle volte scusabile. Si pronuncia quella parola senza conoscere il cane, né i suoi bisogni specifici, né le modalità corrette per accoglierlo e relazionarsi con lui. In ogni caso, impegnativo è diventato un’etichetta. E, come tutte le etichette, semplifica le cose, appiattisce la complessità dell’oggetto che vorrebbe descrivere. Riduce la complessità di un individuo a una difficoltà percepita, costruita spesso su stereotipi, e alimenta pregiudizi che possono compromettere scelte adottive o relazioni ancora in divenire.
Mi sono chiesto, allora, cosa sia davvero un cane impegnativo. Per provare a rispondere, ho cercato di spostare lo sguardo e adottare una prospettiva più ampia, che non guardi solo al cane in sé, ma anche al contesto relazionale, educativo, umano, in cui è inserito.
Nel suo libro Piacere di conoscerti, Elena Garoni invita a riconsiderare il concetto di difficoltà alla luce delle specificità etologiche e comportamentali di ciascuna razza [o combinazione di razze].
Ogni cane porta con sé un bagaglio di bisogni cognitivi, sociali, relazionali e ambientali che chi lo accoglie è chiamato a interpretare e soddisfare. L’adozione non è un atto simbolico, né un gesto di carità. È una scelta che comporta responsabilità, competenze, disponibilità a modificare abitudini, tempi e spazi di vita. Spesso anche a fare delle rinunce.
In questa prospettiva, il concetto stesso di impegno assume un significato più ampio di quello, legato all’idea del contenimento fisico di un cane di taglia grande, che sembrano avere in tanti. Un cane può rivelarsi impegnativo non tanto per l’energia che esprime, quanto per la profondità e specificità dei suoi bisogni. È impegnativo un cane che ci obbliga a osservare, a formarci, a metterci in discussione. Che ci costringe ad affinare lo sguardo, a rompere certi automatismi, a costruire un linguaggio comune fatto di ascolto, fiducia e coerenza.
Alla luce di tutto questo, impegnativo suona spesso come una parola impropria – o, quantomeno, riduttiva. Spesso è una formula usata per mascherare rinunce, paure o giustificare scorciatoie educative. Ma, a ben vedere, ogni cane è impegnativo, nel senso più profondo e umano del termine, nella misura in cui ci chiede di esserci davvero. Di comprenderlo per ciò che è, non per ciò che vorremmo che fosse. E questo non è un limite, ma una straordinaria possibilità di crescita reciproca.
«È impegnativa?»
Mi rendo conto che l’altro sta ancora aspettando una risposta, perché tutto questo ragionamento è rimasto nella mia mente, al sicuro, dove non c’è rischio di alimentare oltre una discussione alla quale ho cercato in tutti i modi di sottrarmi.
Così faccio una valutazione rapida. Potrei spiegare tutto. Potrei raccontare — con la pazienza che non ho, che non ho mai avuto e che mai avrò — cosa significa davvero convivere con un cane come Kyra. Cosa comporta, che tipo di impegno richiede e quanto abbiamo imparato l’uno dall’altra. A quel punto dipende da chi ho davanti, da che impressione mi ha dato, da quanto mi è sembrato disposto ad ascoltare davvero. Dipende anche se mia moglie si trova o meno nei paraggi, perché nel primo caso sono inibito e propenso a rispondere in maniera educata. Tuttavia, come ho detto, il livello è quasi sempre molto al di sotto dell’ordine di grandezza che sarebbe richiesto per un argomento del genere. Alla fine, le persone vogliono solo rendere meno silenziosa una circostanza con un argomento qualsiasi. Per cui, mi limito a qualche frase di rito sul fatto tutti i cani sono un impegno, incasso l’approvazione di mia moglie e mi torno a rifugiarmi nel mio mondo interiore. Tanto, di lì a poco si sarebbe comunque passati oltre. E poi poteva andare peggio.
Si poteva finire a parlare di calcio.
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