Tra le tante sequenze memorabili del cinema supereroistico ce n’è una che riesce a farmi ridere ogni volta che la riguardo. Si tratta della prima apparizione di Quicksilver [al secolo, Pietro Maximoff], interpretato da Evan Peters, in X-Men: Apocalypse [2016]. In questa scena, ambientata nella villa di Charles Xavier, sede della scuola per giovani mutanti, il velocista si muove con disinvoltura mentre tutto intorno a lui sembra sospeso.
Gli occupanti della grande casa sono in pericolo a causa dell’esplosione provocata da Havok nel tentativo di fermare Apocalisse e i suoi cavalieri. Le fiamme si propagano nella villa travolgendo tutto con lentezza [percepita] esasperante e Quicksilver li porta in salvo uno a uno con una naturalezza che mescola ironia e suspense in una combinazione comica. La scelta della colonna sonora – Sweet Dreams degli Eurythmics – amplifica ulteriormente quell’effetto di leggerezza e giocosità che ha reso indimenticabile il personaggio.
Eppure, se la prendiamo sul piano della plausibilità fisica, la scena è un paradosso. A quelle velocità, un corpo umano non potrebbe sopravvivere. L’aria diventerebbe un muro invalicabile, con pressioni e attriti letali. Lo scheletro, i muscoli e gli organi verrebbero distrutti dalle accelerazioni. Ogni gesto produrrebbe onde d’urto devastanti. Insomma, la supervelocità, se intesa come puro spostamento meccanico, è impossibile. E voi direte che essendo un mutante, la sua struttura fisica si è adeguata ai suoi superpoteri. Mi sta bene, ma allora, sottoponendoli a sollecitazioni che lui solo è in grado di sopportare, Quicksilver ha ucciso tutti gli occupanti della villa mentre cercava di salvarli. Perché o i mutanti salvati hanno anch’essi un corpo rinforzato [difficile], oppure, realisticamente, Quicksilver li avrebbe uccisi tutti. Ed è qui, su questa contraddizione, che la questione si fa interessante.
La scena funziona a livello visivo perché viene rappresentata come un rallentamento del tempo, non come una corsa fisica vera e propria. Così ha senso. Quicksilver sposta le persone senza sottoporle ad accelerazioni impossibili, perché il contesto temporale è alterato. Da sempre, penso che la rappresentazione della velocità estrema nei fumetti e nei film di supereroi non vada letta alla lettera, ma come una metafora di qualcosa di diverso: non è l’eroe a muoversi più veloce, ma il tempo attorno a lui a rallentare. Questa interpretazione, oltre a risolvere le contraddizioni fisiche, si legherebbe bene ad altri universi narrativi.
Basti pensare al personaggio di Flash, il cui legame con la velocità non è descritto come il risultato di un potenziamento muscolare impossibile, ma come un’interazione con lo spazio-tempo. Anche le scariche elettriche che lo accompagnano suggeriscono che stia incidendo sulla struttura stessa della realtà, più che sulle proprie capacità atletiche.
Ecco perché, quando rivedo Quicksilver in azione, mi piace pensare che la sua dote non sia correre oltre i limiti della biologia umana, ma scivolare in una dimensione in cui il tempo stesso si piega attorno a lui. È un’interpretazione più elegante che restituisce a quella scena il suo fascino. Non solo una trovata divertente e ben girata, ma anche un modo di raccontare, tramite immagini, l’idea che il tempo non sia una costante, bensì qualcosa che può essere piegato a piacimento. Non da chiunque, chiaro. Ma da Quicksilver, sì.
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