Di recente mi è tornata in mente una scena di un film, U-571.
Nella sala comando del sommergibile tedesco U-571 [per l’appunto, tutta la trama ruota attorno al tentativo di un equipaggio americano di impadronirsi della preziosa unità navale nemica] ci sono un ufficiale, interpretato da Matthew McConaughey, un paio di marinai e un capo, interpretato da Harvey Kietel. Senza dilungarmi troppo, diciamo solo che la situazione è grave e urge una decisione. I marinai guardano l’unico ufficiale presente tra loro e questi, scuotendo la testa, ammette davanti ai suoi uomini che non sa che cosa fare.
Qualche minuto più tardi, il capo raggiunge l’ufficiale nei suoi alloggi e lo rimprovera per il suo comportamento: “Lei non si deve più azzardare, come prima, a dire a quei ragazzi “non lo so”. Sono parole che uccidono un equipaggio peggio di una bomba di profondità. Il comandante è lei ora, e il comandante sa sempre cosa fare, che lo sappia o no.”
L’ho detto già in un articolo di qualche tempo fa che la morte di mio padre mi ha fatto sentire come se da ufficiale di seconda fascia, come McConaughey, fossi stato catapultato in plancia, sulla sedia del capitano [che sembra una figata solo finché non ti ci siedi davvero]. Ora quella frase di Kietel mi sembra perfetta per migliorare questa metafora, per dire come mi sento da un anno e mezzo a questa parte. Senza dilungarmi troppo anche qui, mi limito a dire che ho dovuto prendere decisioni difficili mentendo a me stesso sul fatto che sapessi cosa stavo facendo.
Questa situazione mi ha insegnato tuttavia tantissimo.
Mi ha insegnato, come prima cosa, a convivere con il desiderio impossibile che ci fosse ancora mio padre in plancia. Dopo mesi passati a maledire la sua poltrona, ho imparato a starci su per tutto il giorno fingendo persino che fosse comoda.
Il fatto è che certe cose mettono radici profonde. La sensazione che nell’abbraccio di mio padre non potesse accadermi niente di male, che fosse una protezione più forte di qualunque cosa mi potesse minacciare, aveva messo radici così profonde che anche quando non ero più un bambino e gli abbracci con lui erano diventano rari, quella sensazione era rimasta come un sottinteso, un abbraccio invisibile. Arriva per tutti il momento di rinunciarvi eppure lo stesso mi chiedo come si può vivere senza. Ci ho pensato e ho concluso che non si può, che l’unica cosa che si può fare è imparare a convivere con l’assenza e con la mancanza di certezze che ne deriva.
È come quando da bambino ti tolgono le rotelle alla bicicletta: per restare in equilibrio non hai altra scelta che andare avanti. Forse la spiegazione è questa, che le cose ci vengono tolte per non farci cadere nella tentazione di fermarci.
Tuttavia, confesso che mi sarebbe piaciuto tenere le rotelle ancora un po’. Non è stato possibile, purtroppo, ma mi consola il pensiero che mio padre, ovunque sia, continui a seguire il mio cammino e sia fiero di me, che continuo ad andare avanti senza e che, nonostante tutto, finora sono riuscito a non cadere.


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