Recentemente, in un gruppo Facebook che frequento è apparsa una discussione sui motivi che portano una persona a scegliere, tra tutte le razze canine, proprio il Rottweiler. Una discussione che, presumo, voleva stimolare un confronto, uno scambio di testimonianze e di esperienze che potesse arricchire tutti i partecipanti – quello che dovrebbe fare ogni discussione – che invece è finita in rissa, nella migliore tradizione dei social, costringendo gli amministratori del gruppo a chiudere il thread prima che potessi dire anch’io la mia. Allora ho deciso di farlo qui, approfittando anche del fatto che così posso ritagliarmi uno spazio maggiore da dedicare all’argomento ed estenderlo a una platea più ampia di quella ristretta e autoreferenziale del gruppo
“C’era una volta un bambino a cui piacevano i cani…”
La mia passione per il Rottweiler nacque quando avevo dieci anni. Un giorno, rientrando da un giro in bici, passai davanti al cancello di una villa poco fuori dal mio paese e vidi due cani che dormivano sotto il portico. Prima uno, poi l’altro, alzarono la testa per guardarmi e un attimo dopo erano in piedi. All’epoca non sapevo niente di razze canine, per me esistevano solo Lessie [che appresi in seguito essere un Rough Collie], il Pastore tedesco, il Bulldog e il Dobermann. Tutti gli altri erano “tipo” uno di questi tre. I cani della villa, per esempio, erano tipo Dobermann, però più grossi e senza le orecchie a punta [all’epoca, la conchectomia – il taglio estetico delle orecchie – era la norma per quei cani]. Per farvi capire cosa vidi quel giorno, provate a unire in una sola immagine tutti i cliché estetici sul Rottweiler: corpo massiccio, testa grossa, mantello nero focato, collare in acciaio a scorrimento e coda amputata. Erano più eloquenti di qualunque cartello di avvertimento ed erano la cosa più bella che avessi mai visto in vita mia. A un certo punto, senza che avessi fatto niente, scattarono verso di me. Vederli correre fu uno spettacolo al tempo stesso magnifico e inquietante, stemperato da un particolare comico che mi fa sorridere ancora oggi: correvano entrambi leggermente sbilenchi, come se il posteriore derapasse. Nel loro essere impressionanti erano anche, nonostante tutto, buffi. Certo, potevo ridere della loro andatura perché a separarci c’erano due quintali di ferro battuto e un chiavistello spesso come quello delle cancellate di Mordor, altrimenti penso che me la sarei fatta addosso. Comunque sia, pur confidando nel cancello, decisi che era meglio andarmene, anche perché non avevo senso restare lì solo per infastidirli. Tornai ancora alla villa, in seguito. Il più delle volte dormivano ma capitava anche di vederli girare nel giardino, una volta anche al seguito della proprietaria, una donna anziana che mi colpì per i modi che usava coi suoi cani: gli parlava come se fossero bambini. Quel giorno stava rinvasando delle piante e spiegava loro i passaggi del procedimento come se dovessero ripeterlo e loro ricambiavano le sue attenzioni con lo sguardo adorante e tontolone di chi non capisce niente di quello che sta succedendo ma è comunque felice di essere lì. Mi colpì molto il contrasto tra il loro comportamento durante il nostro primo incontro e quello in quel frangente intimo, familiare, e poi nella mia testa mi ero formato tutt’altra immagine del padrone di quei cani, qualcosa di simile a un domatore di leoni del circo. Me ne stavo lì e li guardavo, rapito e un po’ invidioso.

Col passare degli anni, smisi di passare davanti alla villa.
Smisi d’interessarmi, in generale, ai cani. Il mio era, purtroppo, un interesse meramente teorico, un desiderio che non potevo appagare con niente di concreto, dal momento che a casa nostra qualunque animale che non fosse il canarino era vietato. Al di là del fatto che mia madre non l’avrebbe mai permesso, all’epoca il binomio cane-giardino era un caposaldo intoccabile della cultura cinofila popolare e pensare di prendere un cane abitando in appartamento era semplicemente inaccettabile a meno che non si trattasse di taglie piccole o molto piccole. Poi, qualche anno più tardi, m’imbattei in un libro che in copertina aveva la foto di un cane identico ai due della villa e fu allora che appresi dell’esistenza del Rottweiler come razza.
Comprai il libro d’impulso ma l’impatto col contenuto fu inizialmente deludente. Tutta la parte sullo standard e le caratteristiche della razza mi annoiava da morire e la saltai. Più in là negli anni, con la maturità, ne apprezzai l’utilità e l’importanza ma all’epoca tutte quelle informazioni le percepivo come tediose pedanterie. La parte che invece colpì la mia immaginazione era contenuta nelle prime tre pagine e riguardava le origini della razza.

Le origini del Rottweiler sono, infatti, molto antiche.
Essi discendono dagli antichi molossi da guerra arrivati nell’attuale Germania al seguito delle legioni romane e già questo bastava a solleticare la mia fantasia di appassionato di storia romana. Sebbene il canis pugnax avesse più affinità estetiche con l’attuale Cane Corso che con il Rottweiler, l’idea di un comune retaggio legionario mi affasciava. Quando i romani abbandonarono la regione, rassegnati al rifiuto dei barbari di farsi sottomettere…

…i cani furono lasciati lì e si mescolarono alle razze locali dando vita ad un miscuglio nel quale fu fatto un po’ d’ordine solo molti secoli dopo. Gli allevatori della regione di Rottweil – nota in epoca romana col nome di Arae Flaviae – diedero vita a quel che divenne noto come Rottweiler Metzgerhund, ossia Cane dei macellai della città di Rottweil.






Col tempo, la razza evolvette nei ruoli e nelle mansioni, diventando cane poliziotto e poi cane dell’esercito tedesco. La storia più recente si divide in due filoni: da un lato c’è quello dell’allevamento serio e della conduzione consapevole, che ne ha preservato le caratteristiche di cane rustico, da lavoro, da difesa e da compagnia e dall’altro, purtroppo, quello opaco che ha visto animali, magari di dubbia provenienza o con tare caratteriali, sacrificati a compiti di guardiania in condizioni di isolamento sociale e maltrattamento, che ne hanno esasperato certe caratteristiche facendone lo stereotipo del cane pericoloso e rovinando la reputazione di tutta la razza. E con questo siamo arrivati, finalmente, all’ultimo punto che volevo affrontare in questo articolo: la reputazione del Rottweiler.
Avendo all’epoca saltato tutta la parte sul carattere e sulle caratteristiche della razza – mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa – mi ero fatto un’idea tutta mia di cosa significasse possedere un Rottweiler. Un’idea che, ovviamente, non aveva niente a che vedere con la realtà ma si basava sui miei bisogni emotivi. Il Rottweiler era, ai miei occhi, tutto quello che io avrei voluto essere e non ero. Io ero, infatti, un ragazzino magrolino, insicuro e pieno di paure. Lui era grosso, sicuro di sé e metteva paura solo a guardarlo. In pratica, vedevo l’acquisto di un cane quello come un’operazione aritmetica: io “sfigato”, lui “cane tosto”, insieme avremmo dato come risultato “tipo fico col cane tosto”. Il fatto che miei genitori non mi abbiano mai permesso di prendere un cane – figuriamoci uno così – per quanto mi pesi ammetterlo mi ha impedito di commettere un errore madornale, sacrificando i bisogni di un essere vivente alla mia necessità di conferme.
Il tempo, il lavoro su me stesso e le molte letture hanno bilanciato l’equazione, rendendo da un lato la mia identità e la mia autostima più solide, riducendo il bisogno di conferme e di attributi esterni e, dall’altro, più completa e complessa la mia comprensione di questa razza, che ha tra le sue caratteristiche migliori la mansuetudine, il coraggio, l’equilibrio e l’attitudine a stringere un forte legame col padrone. Il mio desiderio di possederne uno, in pratica, è cresciuto con me. Se prima volevo un Rottweiler – e grazie al cielo non potei averlo – per colmare le mie insicurezze, dopo ne volevo uno perché ne ammiravo retaggio, aspetto, carattere e caratteristiche. Poi parliamoci chiaro, in tutto questo una certa dose di identificazione c’è sempre. Mi piacerebbe dire che sono uno di quei proprietari che hanno scelto il cane al termine di una approfondita valutazione dei pro e dei contro, soppesando le esigenze del cane in rapporto alle mie abitudini, consultandomi con un educatore cinofilo al fine di compiere la scelta più oculata e consapevole. Invece, la verità è che volevo un Rottweiler e l’ho preso appena se n’è presentata l’occasione. Poi, nella migliore tradizione di quelli che prima fanno le cose e poi pensano, ho iniziato anche un percorso con un’educatrice professionista, ma questa è un altra storia che magari racconterò in un altro articolo. Dicevo che c’è un certo grado d’identificazione in tutte le nostre scelte. Nel film La carica dei 101, Pongo osserva dalla finestra il passaggio delle coppie formate dai cani e dai loro proprietari, così simili tra loro da sembrare i primi le versioni umane dei secondi, un modo di sottolineare la tendenza di molti umani a scegliere cani che gli somiglino (o ai quali vorrebbe somigliare). Del resto, come ho detto l’altro giorno parlando con una mia amica, se avessi voluto un cane che mi riportasse la pallina non avrei scelto Kyra. L’ho scelta per i motivi che ho descritto e perché quel giorno, dentro di me, è scattato qualcosa appena l’ho vista, qualcosa che mi ha fatto dire che non avrei mai lasciato quella casa senza di lei. Cosa che, per dire, non è successa con sua sorella, il cui sguardo mi ha fatto pensare subito che se della cucciolata fosse rimasta solo lei, avrei rinunciato. Ciò doverosamente chiarito, prendere con me uno di questi cani è stato l’avveramento del sogno di una vita. L’unico problema è stato che per quanto la mia idea del cane fosse più strutturata e libera da certe contaminazioni, si basava comunque su un album di ritagli, informazioni e immagini accumulate negli anni, che mancavano tuttavia di quella tridimensionalità che solo l’esperienza ti può dare. E questo lo capii solo dopo che Kyra fece il suo ingresso in casa nostra.





FINE PRIMA PARTE
[segue nel prossimo articolo]

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