Claudio Vergnani una volta ha scritto che la verità non è snob, che puoi trovarla dappertutto, anche in fumetto. Negli anni ho ricevuto molte conferme di questa affermazione, scoprendo la verità in contesti nei quali mai avrei pensato di cercarla; l’ultima volta è avvenuto recentemente, mentre riguardavo per l’ennesima volta il film Riddick, ultimo capitolo della trilogia omonima dedicata alle imprese dell’antieroe furiano Richard Riddick.
Il film, di per sé modesto, costruito tutto sul carisma del protagonista, contiene tuttavia una serie di spunti che mi hanno fatto riflettere su temi a me molto cari in questo momento, quali i cani e il rapporto con questi ultimi [ma non solo]. Il personaggio di Riddick e la sua storia si prestano, inoltre, ad essere esempio perfetto del concetto di motivazione, che dall’ambito cinofilo può essere esportato agli umani e offrire una chiave di lettura per comprendere cosa sia veramente la felicità.
“Ma non avevi detto che per un po’ non avresti parlato di cani?”
Sì, infatti ho scritto ben due articoli nei quali ho parlato d’altro, poi mi sono messo a guardare Riddick e…

…di fronte a un’immagine del genere vuoi che non ti scappi un articolo sui cani? Eddai!
Partiamo dall’inizio, intendo dall’inizio del film.
Avevamo lasciato Riddick assiso con aria mesta sul trono del Lord Marshal, circondato da Necromonger basiti e genuflessi. Lo ritroviamo ora moribondo, su un pianeta deserto, dove riprende conoscenza grazie all’interessamento di un rapace alieno che pensa bene, vedendolo in quelle condizioni, di approfittarne per fare merenda con le sue falangi. Ma Riddick anche in fin di vita resta un cazzutissimo e spietato assassino e invece di allontanarlo con gentilezza, come sarebbe stato gradito agli animalisti spaziali, lo afferra per il collo lo uccide. Più tardi, viene aggredito da un gruppo di grossi canidi simili a sciacalli e si salva un po’ grazie alla sua scaltrezza e un po’ per fortuna. Diciamo che, in generale, l’accoglienza della fauna locale non è delle più amichevoli e pensare che il peggio, con gli scorpioni giganti del fango, deve ancora venire. Un giorno, esplorando il pianeta nel mezzo di una tempesta di sabbia, Riddick s’imbatte in un un cucciolo di canide alieno. È solo e agonizzante e Riddick decide di prenderlo con sé.

Perché lo fa?
Potrebbe aver provato pena per lui o potrebbe aver pensato che, una volta addomesticato, avrebbero potuto farsi compagnia, proteggersi a vicenda e collaborare nella caccia. Queste potesi non sono mie, sono quelle che Konrad Lorenz, nel suo libro “E l’uomo incontrò il cane” [Adelphi, 1977] presume possano aver spinto, molti anni fa, gli uomini ad avvicinare e farsi amici esemplari di sciacalli o di lupi dimostratisi più confidenti. Trattandosi di un’opera di fantasia [parlo di Riddick], spero di potermi astenere da considerazioni – che altrimenti sarebbero doverose – su quanto sia antietica e rischiosa la convivenza con un predatore selvatico. Se siete interessati all’argomento, in rete potete trovare decine di articoli che ne parlano. In questa sede, passerei oltre.
Riddick prende con sé quell’animale e instaura con lui un rapporto di fiducia, condividendo con lui cibo e riparo, offrendogli la propria protezione, e qualche minuto dopo possiamo vedere l’animale, ormai adulto, seguirlo ovunque come farebbe, per l’appunto, un cane. Mi corre l’obbligo, se non altro per prevenire obiezioni da parte dei lettori che conoscono meglio il film, di precisare che Riddick è comunque quello che è: quando a un certo punto si tratta di far sputare al suo amico qualcosa che non avrebbe dovuto mettere in bocca non va molto per il sottile. Parliamo, tuttavia, di una sola scena su molte nelle quali, invece, sono mostrati due concetti che sono capisaldi della relazione, ossia la fiducia e la collaborazione. Il canide, infatti, in molte scene si volta a cercare lo sguardo di Riddick, scambia con quest’ultimo segnali di complicità. I due collaborano nella preparazione del pasto e condividono il cibo. Quando all’orizzonte si profila la perturbazione che minaccia la vita sul pianeta, il canide emette un verso di allarme per avvisare Riddick del pericolo, il quale lo raggiunge e lo rassicura con una carezza: “I know. It’s coming.”

Potrei aggiungere che il canide gira per il pianeta senza guinzaglio e risponde sempre al richiamo, ma non so quanto possa essere rilevante su un pianeta in cui Riddick e l’unico umano e non c’è il rischio di incappare in qualche rompiscatole con l’avvocato facile. Tra l’altro, se fossi nei panni del malcapitato in questione, tra i due sarei più preoccupato del furiano che dell’animale.
“Ma non avevi detto che avresti parlato anche delle motivazioni?”
Ci sto arrivando. Per farlo dobbiamo tornare indietro, all’inizio del film. Riddick, avendo ucciso il Lord Mashal, in base al credo necromonger per il quale ciò che uccidi resta a te, ne ha preso il posto. Egli è leader militare e religioso della più potente nazione di conquistatori dello spazio che sia mai esistita, possiede tutto quello che un uomo possa desiderare, eppure sceglie di accordarsi con Lord Vaako per rinunciare alla carica. Riddick preferisce tornare sul suo pianeta natale, Furya, piuttosto che restare in quell’ambiente. Il problema di Riddick è che possiede tutto meno quello di cui ha veramente bisogno: la libertà, non solo quella di fare ciò che desidera, soprattutto quella di essere se stesso e non quello che gli altri vorrebbero che fosse.
Se riflettiamo su tutte le volte in cui si è detto, anche su MinimiTermini, che un cane è felice solo quando sono appagate tutte le componenti del suo ricco e variegato patrimonio motivazionale, ci rendiamo conto che Riddick può essere usato come esempio di ciò che provoca il mancato appagamento di tali motivazioni. Egli è infatti un uomo libero, abituato a stare da solo, forte ed egocentrico; è un assassino, una spietata ed efficientissima macchina di morte, nato e addestrato per fare quello che fa. In quell’attività, per quanto possa sembrarci esecrabile, egli dà sfogo alle proprie energie e la propria imponente fisicità. I Necromonger lo vorrebbero, invece, sul trono guidare la loro nazione. Ditemi voi se questa non è una metafora perfetta delle pretese di certi proprietari nei confronti dei loro cani, nati e selezionati per essere una certa cosa e snaturati per assecondare il loro egoismo. A tale riguardo, vorrei che non prendeste troppo alla lettera la questione delle attitudini professionali di Riddick: era solo un’allusione ai ruoli specializzati di certi soggetti, come risultato di una selezione artificiale e di un addestramento specifico. Certe cose, meglio chiarirle per evitare malintesi. Dicevamo, lo snaturamento di un soggetto per assecondare i desideri del suo proprietario è una cosa che non può funzionare, se non sacrificando la felicità del soggetto stesso.
Recentemente, ho letto un bellissimo articolo di Chiara Grasso, etologa, già citata su MinimiTermini, che parlava di benessere animale distinguendo tra i concetti di Welfare e Welbeing. Ah, non dimentichiamoci una cosa importante: l’essere umano è un animale (mammifero, primate superiore, unico rappresentante esistente del genere Homo), per cui quando parliamo di certi argomenti, se scendiamo per un attimo dal podio evolutivo e ci mettiamo seduti in cerchio con gli altri animali, possiamo imparare un sacco di cose anche su noi stessi. Riddick ci dimostra con le proprie azioni che Chiara Grasso ha ragione. Egli, infatti, presso i Necromonger si trova in una condizione di Welfare, di benessere basico, sufficiente a vivere. Egli, tuttavia, aspira a qualcosa di più e infatti rinuncia al trono necromonger per inseguire un altro tipo di benessere, più elevato e completo, legato al soddisfacimento di bisogni di cui, per dirla con le parole della nostra etologa di fiducia “un animale può sì, fare a meno per sopravvivere, ma che se non vengono soddisfatti obbligano questo a vivere in una condizione, appunto, di sopravvivenza e non di vera esistenza.”

Fin qui abbiamo parlato di cani e di alieni, ma il discorso è davvero così diverso per noi umani? Se ci concediamo ancora qualche minuto prima di rimontare in cima al podio dell’evoluzione e restiamo seduti un altro po’ nel cerchio con gli altri animali, scopriremo che non è diverso. Il principio per cui puoi possedere tutto ma sarai infelice finché non avrai quello di cui hai veramente bisogno è, infatti, un principio generale. Senza scomodare le scienze sociali, la narrativa è piena di opere che hanno per protagonisti individui infelici che ritrovano la felicità scoprendo se stessi e i propri bisogni reali. Capire chi siamo, quali sono i nostri bisogni e orientare i nostri sforzi in quella direzione è il primo passo per accedere alla felicità cui abbiamo diritto. Siamo quello che siamo, forse dovremmo iniziare a riconoscerlo con noi stessi e accettarlo, come fa Riddick o come fanno i cani, che non vogliono essere niente di diverso da quello che sono. Questo non vuol dire, naturalmente, che non si debba lavorare per migliorare se stessi, semmai che è sbagliato cambiare se stessi per aderire a un modello di comportamento che non ci rispecchia. Una volta, durante un seminario, Lorenzo Battistuta ha detto una frase che mi è rimasta impressa: “Quando tu cerchi di cambiare il giusto, perdi sempre.”
Ecco che i cani, come Riddick, su questo passono insegnarci molto. A me, Kyra ha già insegnato tantissimo.


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