MinimiTermini

Il blog di Oreste Patrone


Gandalf e il Balrog: la Battaglia del Picco come metafora del conflitto interiore

con il dott. Giuseppe Caserta

Una delle mie scene preferite del Signore degli Anelli è quella dello scontro tra Gandalf e il Balrog. Mi riferisco alla versione presente nella trilogia di Peter Jackson perché, come avremo modo di vedere, la descrizione della scena nel libro contiene interessanti scostamenti rispetto alla trasposizione cinematografica. Prima di iniziare, entrando nel merito della questione che dà il titolo all’articolo, farò un breve riassunto a vantaggio dei meno nerd.

La Compagnia dell’Anello, costretta dagli incantesimi di Saruman ad abbandonare la via per il passo di Caradhras, decide di attraversare le miniere di Moria, regno del nano Balin. Non è ciò che Gandalf vorrebbe; egli, infatti, teme quei luoghi perché sono infestati dagli orchi, ma anche da qualcosa di molto più antico e pericoloso. È Saruman a rivelarci di cosa si tratti, mostrandoci un manoscritto sul quale compare il disegno di una creatura che sembra fatta di fiamme e di tenebre:

“I Nani hanno scavato troppo a fondo e con troppa avidità. Sai cos’hanno risvegliato nell’oscurità di Khazad-dûm? Ombra e fiamme…” 

Proprio quando i nostri se la stanno vedendo brutta con gli orchi, che li hanno circondati, le fiamme si manifestano preannunciate da un ruggito che li mette in fuga e da un bagliore rossastro che illumina il colonnato. I peggiori timori di Gandalf sono confermati: 

“È un Balrog, un demone del mondo antico. È un nemico al di là delle nostre forze.” 

I nostri fuggono a rotta di collo verso la salvezza, rappresentata dalle Porte. occidentali, cui si accede passando per il ponte di Khazad-dûm, quando dall’oscurità emerge con un balzo, avvolta dalle fiamme, la figura della creatura presente sul manoscritto di Saruman, che dal vivo è ancora più spaventosa: aspetto demoniaco, armata di frusta e spada, li insegue con passo pesante ma inesorabile mentre il suo corpo sembra bruciare dall’interno, spandendo intorno a sé fiamme e una cortina di fumo denso e catramoso. Nel disperato tentativo di consentire la fuga ai suoi compagni, Gandalf cerca di arrestare l’avanzata del nemico piazzandosi al centro del ponte, minacciandolo coi suoi poteri: 

“Tu non puoi Passare. Sono un servitore del Fuoco Segreto e reggo la fiamma di Anor. Il fuoco oscuro non ti servirá a nulla, fiamma di Udûn!”

“TU! NON PUOI! PASSARE!”

Il Balrog, tuttavia, è di avviso diverso e tenta di avventurarsi sul ponte, che cede sotto il suo peso. Pericolo scampato, avranno pensato tutti quelli che non avevano letto il libro; invece, con un colpo della sua frusta di fiamme il Balrog afferra Gandalf per una caviglia e lo trascina con sé nel baratro, un attimo dopo la celebre battuta:

“Fuggite, sciocchi!”

Sappiamo anche come va a finire.

“Attraverso l’acqua e le fiamme, dal torrione più basso alla cima più alta ho lottato con lui, il Balrog di Morgoth. Alla fine, ho abbattuto il mio nemico e ho scaraventato la sua carcassa contro il fianco della montagna. L’oscurità mi ha avvolto e ho errato fuori del pensiero e del tempo. Le stelle compivano il loro giro e ogni giorno era lungo come una vita terrena. Ma non era la fine. Ho sentito la vita in me, di nuovo. Sono stato rimandato qui a terminare il mio compito.”

Gandalf, quindi, sconfitto il suo nemico muore e ritorna alla vita. Nello scontro all’ultimo sangue con il demone spuntato delle profondità della terra, quel demone di cui Gandalf aveva tanta paura, il motivo per cui non vorrebbe passare per Moria, ci ho sempre visto una metafora della lotta che alcuni di noi combattono con la propria parte oscura, coi propri demoni, nei quali ci si può imbattere esplorando, non sempre per nostra scelta, le profondità più buie e spaventose dell’anima, ingaggiando una lotta che ci costringe a morire al fine di risorgere, rinnovati ed emendati di quella parte di noi stessi.

A conforto di questa lettura, c’è un passaggio del libro che descrive la scena in modo diverso e mette in luce un aspetto interessante.

“Lottammo a lungo nelle profondità della viva terra, ove il tempo non esiste. Sempre mi afferrava e sempre io lo colpivo, e infine fuggì attraverso oscure gallerie. Non erano state scavate dal popolo di Durin, Gimli figlio di Glóin. Giù, molto più giù dei più profondi scavi dei Nani, esseri senza nome rodono la terra. Persino Sauron non li conosce. Essi sono più vecchi di lui. Adesso io ho camminato in quei luoghi, ma non narrerò nulla che possa oscurare la luce del sole. Disperato com’ero, il mio nemico era l’unica speranza che avessi, e lo inseguii afferrandogli le caviglie. Così mi condusse dopo molto tempo nei segreti passaggi di Khazad-dûm, che conosceva sin troppo bene. Poi continuammo a salire, sempre più in alto, e giungemmo all’Interminabile Scala.”

Gandalf, nell’esplorare quelle gallerie che sono metafora della nostra interiorità inesplorata e inquietante, si affida suo malgrado proprio al suo nemico, il Balrog, afferrandosi alle sue caviglie per essere guidato fuori da quell’oscurità, abbracciando, per così dire, la sua parte oscura, accogliendola dentro di sé, prima di ucciderla. Io ci ho sempre visto questo, ma la psicologia non è il mio forte e poiché ho sempre detto che dovrebbero parlare di certi argomenti solo le persone che li conoscono, ho preso il telefono e ho scritto al mio amico Giuseppe Caserta, psicanalista e divulgatore, già noto ai lettori di MinimiTermini, e gli ho chiesto che ne pensa di questa mia lettura.

Ciao Peppe, bentornato tra noi. 

Ciao Oreste, è sempre un piacere essere ospitato su MinimiTermini! 
Chiaramente, sai che sfondi una porta aperta: ritengo Il Signore degli Anelli uno dei Miti moderni, al pari delle grandi storie che hanno accompagnato l’Umanità fin dei suoi albori, e per questo credo che una analisi da un punto di vista della Psicologia Complessa sia estremamente interessante. Come Jung ci insegna, i miti rappresentano le situazioni tipo (noi psicologi diremmo archetipiche) comuni a tutta l’Umanità, e ci danno preziosissimi spunti per affrontarle e magari anche superarle. 

Lo scontro tra Gandalf e il Balrog è a mio parere uno scontro non solo tra il Bene e il Male, ma anche tra la Ragione, impersonata dal Grigio, e gli Istinti, la parte impulsiva e animale che non può non albergare dentro ognuno di noi. Jung diceva sempre che non possiamo uscire dai limiti della nostra biologia, e quindi la nostra Ombra, ovvero la parte oscura in noi, che contiene tutte le nostre parti che non ci piace associare al nostro Io, contiene anche tutti quegli aspetti istintuali, radicati nella nostra natura stessa di animali, che spesso prendono il sopravvento. Guerre, violenze e crudeltà quotidiane a cui assistiamo non parlano della cattiveria dell’Uomo, ma della sua animalità: anche noi a volte risvegliamo il Balrog con la nostra avventatezza o tracotanza, come fanno gli incauti membri della Compagnia, ed esso si scatena in tutta la sua istintualità. Pensare di reprimerlo con gli strumenti della ragione (come le leggi o la morale) è inutile: il nemico – come saggiamente ricorda Gandalf – è al di là delle nostre forze.

Assume quindi una importanza straordinaria la dinamica della lotta che Gandalf il Grigio – Io intraprende con il Barlog – Ombra, non solo quindi parte malvagia ma semplicemente inferiore, ovvero abitante nelle profondità, in quei recessi (cunicoli?) dell’animo umano in cui non vogliamo o non riusciamo a guardare. E cosa fa lo stregone? Nonostante la lotta, quando ha paura di smarrirsi tra i cunicoli afferra il nemico alle caviglie, definendolo l’unica sua speranza. 

Ecco il passaggio chiave, quello che ci spiega come mai Gandalf il Grigio diventerà Gandalf il Bianco: la sconfitta del Barlog deve passare necessariamente per una sua assimilazione, per un riconoscimento della sua utilità, della sua necessità per non smarrirsi. Così allo stesso modo noi non possiamo rinunciare alla nostra Ombra, né possiamo sezionarla dalla nostra psiche con gli strumenti dell’intelletto: quello che dobbiamo fare è riconoscerne la potenza ma anche l’utilità, accettare che a volte non la logica, ma l’istinto e le pulsioni arcaiche possono guidarci fuori dalla tempesta, e che anche il Bianco è velato di nero come Saruman, del resto, bianco anche lui, ma nero come la notte. Cosa è infatti Gandalf il Bianco? Non un essere totalmente buono, ma una trasformazione, più saggio, in fondo sempre lo stesso Gandalf, ma anche qualcos’altro: egli non può non uscire cambiato dallo scontro con il suo Nemico, e paradossalmente riesce ad acquisire la sua nuova forma – laddove il bianco è il colore del sacro per eccellenza – a discapito del suo sacrificio. 

Non è quello forse che si narra a proposito delle apparizioni di Cristo dopo la sua morte? Nell’incontro con il Risorto, secondo la tradizione cristiana, in molti casi nemmeno i discepoli più vicini a Lui lo riconobbero, pur avendolo conosciuto bene e intimamente. Risulta evidente che Egli avesse una forma non uguale, ma simile, allo stesso modo di Gandalf, che dice a chi lo interroga sulla sua identità di ricordarsi che veniva chiamato così un tempo. Perché risponde in questo modo? Perché egli per vincere il Barlog ha dovuto sacrificare morendo la sua identità, il suo vecchio Io, così come noi dobbiamo sacrificare alcune nostre parti (vecchi modi di fare, credenze obsolete, automatismi…) che devono morire per permettere l’emersione del nuovo. Jung teneva molto al concetto di sintesi per spiegare come si possa uscire da un conflitto irrisolvibile: non già un trionfo di una parte su di un’altra, ma l’emersione di una terza posizione, che in qualche modo tenga presenti entrambi i poli e crei un Nuovo che li includa ma che sia anche altro. 

Non perfezione quindi, ma completezza, in un bizzarro pantheon dove accanto a Dio siede necessariamente anche Lucifero. 

Oreste
& Giuseppe

dott. Giuseppe Caserta
Psicologo Analista junghiano e psicoterapeuta, mi occupo di clinica di adulti e adolescenti e di supervisione di casi clinici per i colleghi. Sono anche docente presso la scuola di specializzazione in psicoterapia Istituto Gaetano Benedetti di Assisi e direttore scientifico della scuola di  arteterapia Atakrea di Castelfranco Veneto.



Lascia un commento