The Ghost and the Darkness [Spiriti nelle tenebre] è un film del 1996 diretto da Stephen Hopkins, tratto dal libro “The Man-Eaters of Tsavo” di John Henry Patterson. Di per sé non un granché, come film, tuttavia ci sono un paio di aspetti, sulla simbologia e la funzione del leone nella narrazione, che meritavano secondo me un approfondimento. Ma andiamo con ordine. I fatti, innanzitutto.
La vicenda dei leoni mangiatori di uomini dello Tsavo riguarda una serie di aggressioni avvenute ai danni degli operai impegnati, nel 1898, nella costruzione di un ponte ferroviario sul fiume Tsavo, in Kenya. John Patterson, colonnello della British Army e ingegnere, dirigeva i lavori per conto della Compagnia Britannica dell’Africa Orientale, che aveva commissionato la costruzione del ponte come parte di un più ampio progetto che prevedeva la realizzazione di una linea ferroviaria di collegamento tra il porto di Mombasa e l’entroterra. Secondo la versione di Patterson, i due leoni sarebbero responsabili della morte di centotrentacinque uomini. Stime più prudenti e attendibili, basate sull’analisi storica dei fatti, ritengono che il numero totale non supererebbe le trentacinque unità. Le linee generali degli eventi sono comunque confermate, ossia che una coppia di leoni senza criniera avrebbe preso di mira gli operai di quel cantiere con un accanimento tale da provocare la fermata dei lavori, fino alla loro morte avvenuta per mano dello stesso colonnello, che riuscì ad abbatterli entrambi a distanza di tre settimane uno dall’altro.
Come noto anche ai meno ferrati in nutrizione animale, l’uomo non rappresenta la prima scelta del leone quando si tratta di nutrirsi. Le sue preferenze sono orientate piuttosto sui grandi erbivori della savana. Questo non vuol dire che non possano verificarsi aggressioni, ma una predazione così sistematica apparve subito sospetta. Per anni ci sono state diverse teorie sul perché questi leoni avessero iniziato a cacciare l’uomo, ma è stato uno studio del 2017, pubblicato su Scientific Reports, della paleontologa Larisa DeSantis a fornire la risposta definitiva alla domanda.
Nello studio, oltre a smentire l’ipotesi che i leoni di quella regione avessero iniziato a familiarizzare col sapore della carne umana prima del 1890 a causa di una epidemia di peste bovina che aveva decimato le loro prede naturali, la DeSantis ha dimostrato che tanto i mangiatori di uomini dello Tsavo quanto un terzo leone, che nel 1991 uccise sei persone nella regione del Mfuwe, nello Zambia, soffrivano di mal di denti. Uno dei due esemplari uccisi da Patterson aveva un terribile ascesso a un canino e tre incisivi spezzati, mentre il suo compagno di caccia soffriva per una ferita a un dente e alla mascella. Il leone dello Zambia aveva una mandibola fratturata. Con questi problemi, difficilmente i leoni avrebbero potuto azzannare e soffocare una preda di grandi dimensioni o masticarne le carni, molto più dure rispetto a quella umana. I tre esemplari, secondo la scienziata americana, avrebbero mangiato uomini solo per questo motivo.
Il colonnello Patterson, quindi, nel suo libro avrebbe ricamato un bel po’ di fantasia, soprattutto nei punti in cui sembra voler attribuire ai due animali poteri soprannaturali. Se, da un lato, lo studio della DeSantis ha rimosso l’aura di mistero che aleggiava sulla vicenda e ridimensionato l’impresa del colonnello da scontro con spiriti assassini a battuta di caccia al leone, non scalfisce a mio giudizio il fascino della narrazione di Hopkins.
Il film, infatti, amplifica le congetture di Patterson ponendosi in una posizione opposta rispetto alle conclusioni della DeSantis, aggiungendo ai comportamenti già inusuali dei due felini, come la caccia in coppia, altri dettagli insensati e agghiaccianti, come lo scuoiamento della preda per berne il sangue o il fatto di collezionare teschi umani. Tutto allo scopo di accrescere l’aura di mistero e di terrore che li circonda.
La battuta di caccia finale, oltre a offrire una delle poche sequenze decenti del film, sottolineata dalle splendide musiche di Jerry Goldsmith, trascende la millanteria autobiografica di Patterson per elevarsi a scontro all’ultimo sangue tra due mondi: quello della modernità e del progresso tecnologico da un lato, rappresentata dalla ferrovia della Compagnia, che ha in Patterson e Remington i propri campioni; e dall’altro la parte più brutale e spaventosa della natura, che reagisce all’invadenza umana con comportamenti al di fuori di ogni regola e di ogni etogramma. Geniale l’idea di William Goldman, autore della sceneggiatura, di introdurre il personaggio originale del cacciatore professionista Charles Remington, che affiancando Patterson bilancia l’equazione e rende lo scontro un doppio a tutti gli effetti.
Difficile dire chi siano i buoni, in questo film. La narrazione pende nettamente a favore di Patterson. Esagerando e snaturando il loro comportamento, fa uscire i leoni dallo schema della lotta giusta per la sopravvivenza e la difesa del territorio e fa di loro degli antagonisti perfetti, mostri spaventosi che devono essere eliminati a ogni costo, una responsabilità che ricade necessariamente sulle spalle dell’uomo bianco. Se è facile entrare in empatia con una leonessa che difende i suoi cuccioli, più difficile è farlo con un leone maschio che colleziona teschi umani in una grotta. Lo spettatore medio non prova alcuna pena per i due leoni, vuole solo che Patterson li abbatta ponendo fine al massacro. Non si pone il dubbio se le circostanze a contorno di quel massacro possano spiegarlo, se non giustificarlo, perché quel dubbio è inibito da una narrazione volutamente sbilanciata a favore del protagonista umano. D’altro canto, lo stereotipo coloniale del cacciatore europeo incarnato da Patterson evoca un sentimento di astio immediato e di vergogna, anche da parte di chi, come me, pur non avendo mai preso parte all’avventura coloniale si sente comunque in difetto, parte proprio malgrado del paradigma biblico che ponendo l’uomo al di sopra degli altri esseri viventi, ha generato quella prospettiva antropocentrica che è la madre di tanti mali.

“They are at the Field Museum in Chicago,
and even now, after they have been dead a century,
if you dare to lock eyes with them…
…you will be afraid.”


Lascia un commento