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Il blog di Oreste Patrone


Le scelte “inconsapevoli”: contrasto logico o realtà?

con il dott. Giuseppe Caserta
Psicanalista

In alcune culture, il concetto di volontà è visto in modo così ampio e complesso che anche ciò che sembra non essere una scelta è, in qualche modo, considerato come il frutto della nostra intenzione o del nostro destino. Nella dottrina induista, per esempio, ogni aspetto della vita, anche quelli apparentemente fuori dal nostro controllo, sono in realtà in armonia con il nostro karma; anche ciò che non scegliamo è una manifestazione, una risonanza delle nostre intenzioni che si allineano con il nostro destino e il nostro cammino spirituale. 

Una comprensione superficiale di questi concetti, che qui ho solo accennato, o la loro semplificazione eccessiva a scopo divulgativo, ha portato alla diffusione di un’espressione che mi lascia perplesso ogni volta che la sento. Mi riferisco alle cosiddette “scelte inconsapevoli”

Fermiamoci un attimo a riflettere: può esistere una scelta senza consapevolezza? La stessa etimologia della parola “scelta” implica un atto di coscienza, un processo deliberato di selezione che, per definizione, esclude l’inconsapevolezza. Dunque, quest’espressione oltre a contenere una contraddizione è del tutto priva di senso logico.

Nella ricerca un eventuale punto di contatto tra quel concetto allargato di volontà cui ho accennato in apertura e l’uso di un espressione che non mi convince, mi sono imbattuto in un articolo che parla della teoria del pensiero inconsapevole, sviluppata nel 2006 da Ap Dijksterhuis e Loran Nordgren [Unconscious thought theory – UTT]; tuttavia, il sito che ospitava la citazione non m’ispirava fiducia e sono passato oltre. Estenuato da giorni e giorni di ricerche che mi hanno fatto accumulare più confusione che materiale utile, ma tuttora intenzionato ad approfondire l’argomento e venirne a capo, ho chiesto a quell’amichevole psicanalista di quartiere del mio amico Peppe se volesse darmi una mano e rispondere, una volta per tutte alla domanda: esistono davvero scelte inconsapevoli o si tratta, come io sostengo, di un espressione infelice usata impropriamente?

Ciao Oreste,
grazie per avermi “evocato” per parlare di questo tema, che non sto qui a spiegarti quanto possa essere estremamente appassionante non solo dal punto di vista generale della psicologia e, in particolare, della psicoanalisi, ma anche da un punto di vista soggettivo.

Voglio iniziare subito con una domanda che, a mio parere, è indispensabile per comprendere perché affermare che facciamo scelte inconsapevoli sia corretto, pur dovendo chiarire bene che cosa intendiamo per “inconsapevole”. La domanda è: da un punto di vista psicologico, chi siamo noi? Siamo la parte lucida, razionale e soprattutto cosciente, che siamo abituati a conoscere e con la quale dialoghiamo nel corso della nostra vita, oppure siamo la parte istintuale, emotiva e irritabile che emerge quando meno ce lo aspettiamo e spesso ci travolge o ci conduce su strade che non avremmo mai pensato di poter percorrere?

La psicoanalisi ha sempre sostenuto, in tutte le sue derivazioni, che esiste una parte cosciente della psiche e una parte inconscia. Quest’ultimo termine, divenuto così famoso da entrare nel linguaggio comune, indica tutti i processi psichici di cui non abbiamo contezza, ma che inevitabilmente spingono e motivano i nostri comportamenti. Rispetto all’idea originale freudiana, secondo cui l’inconscio fosse soltanto il luogo del rimosso (ovvero di tutte le emozioni, i sentimenti e i ricordi inaccettabili perché perturbanti o contrari alla morale), si è compiuta decisamente molta strada.

Già Carl Gustav Jung arrivò a teorizzare che nell’inconscio non ci fosse soltanto ciò che non volevamo vedere di noi stessi, ma anche ciò che ancora non eravamo riusciti a scoprire, incluse potenzialità inespresse; inoltre intuì che non esistesse soltanto un inconscio personale, ma anche uno collettivo, in cui risiedono componenti comuni a tutti gli esseri umani, a prescindere dalla storia o dall’estrazione culturale. Un esempio? Gli istinti, come quello materno, che possono manifestarsi sia in una donna eschimese sia in un cittadino della Nuova Zelanda, senza che si siano mai incontrati.

Con la scoperta di potenti strumenti tecnologici che consentono di osservare l’attività del cervello in vivo, senza arrecare danno ai soggetti studiati, le neuroscienze hanno aperto possibilità enormi, sebbene non ne comprendiamo ancora appieno il quadro generale. Queste ricerche stanno rivelando una psiche tutt’altro che unitaria, bensì suddivisa in tante piccole aree collegate tra loro, ognuna abbastanza indipendente dalle altre. Ad esempio, Bromberg, in un interessante lavoro del 1998, ha ipotizzato una mente strutturata su diverse zone e livelli interconnessi, di cui la persona non ha alcuna consapevolezza, pur percependoli comunque come “Me”. Si tratta però di parti molto diverse tra loro. Questo spiega, ad esempio, perché in caso di traumi intensi le persone abbiano difficoltà a ricordare l’evento oppure siano perseguitate da immagini mentali intrusive: un meccanismo denominato “dissociazione” rende arduo costruire una narrazione unitaria del vissuto, scollegando o ipercollegando alcune aree dalle altre, e creando così vuoti di memoria o loop infiniti di immagini spaventose, con lo scopo di prevenire il ripetersi del trauma.

Questa lunga premessa serve a sottolineare ciò che Hillman affermava: la nostra mente è “politeista” e non “monoteista”. Il nostro io, cioè la parte cosciente, è soltanto una tra molteplici istanze, con la caratteristica di fungere da amministratore di un vasto “condominio” psichico e, soprattutto, di vivere nella convinzione di essere l’unica parte reale. Io, più che “scelte inconsapevoli”, userei il termine “scelte inconsce” per indicare quei processi che inevitabilmente ci riguardano (poiché siamo l’intera psiche, non solo quella razionale) ma che, pur provenendo da noi, difficilmente riusciamo a integrare in una narrazione sensata con la nostra storia di vita razionale. La psicoanalisi, di fatto, sostiene l’importanza fondamentale di conoscere l’inconscio per armonizzare la vita psichica, favorire la ricerca di senso e promuovere la crescita individuativa della persona.

Ciò non significa che un giorno tutto l’inconscio diventerà cosciente: sarebbe come pretendere che i nostri telescopi spaziali mappino al centimetro l’intera superficie di un esopianeta distante migliaia di anni luce dalla Terra. Tuttavia, se solo imparassimo a riconoscere che, simbolicamente, esiste un “altro” dentro di noi che può desiderare cose ben diverse rispetto alla nostra coscienza, e provassimo a dialogarci, il processo decisionale sarebbe probabilmente molto più concordato tra le parti, offrendoci una maggiore sensazione di coerenza interna. Altrimenti, impareremmo comunque a fidarci del nostro inconscio, che – come tutto il resto nel corso dell’evoluzione – esiste per una ragione.

dott. Giuseppe Caserta

Psicologo Analista junghiano e psicoterapeuta, mi occupo di clinica di adulti e adolescenti e di supervisione di casi clinici per i colleghi. Sono anche docente presso la scuola di specializzazione in psicoterapia Istituto Gaetano Benedetti di Assisi e direttore scientifico della scuola di  arteterapia Atakrea di Castelfranco Veneto.



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