MinimiTermini

Il blog di Oreste Patrone


Bagattelle artificiali

di Andrea Olivieri

Dicono che avere una passione renda le persone meno pericolose. Forse è vero che le rende soltanto più interessanti da frequentare. Io ultimamente non sono granché frequentabile allora, perché mi appassiono sempre meno. Mi sembra che tutto corra troppo veloce, che non ci sia più il tempo per soffermarsi sulle esperienze, per farle dischiudere. Escono troppi libri, troppi dischi, troppi film, troppe serie per poter anche soltanto prendere nota di ciò che forse un giorno potrei leggere, ascoltare, vedere. Salvo essere nuovamente sommerso dal flusso quotidiano di uscite, tutte imperdibili, tutte imprescindibili. Lo sforzo prometeico che produco nel tentativo di stare dietro a cotanta bulimia da “produci/consuma/crepa” mi fa sentire un criceto nella ruota, mentre mi riempio d’ansia cercando di tenere il passo con mode e tendenze che dureranno una manciata di mesi, se non di giorni. In questo senso, dal Novecento come secolo breve, siamo passati al secolo della brevità.

Ora, tra le molte cose che ho smesso di fare, per recuperare tempo e canalizzarlo altrove, c’è che non leggo più gli inserti culturali dei quotidiani. Tanto ormai non parlano d’altro che di Intelligenza artificiale (IA), strologando su ipotesi una più allarmante dell’altra, in una rincorsa a chi offre del prossimo futuro una visione più distopica e apocalittica. Pazienza per la letteratura e la filosofia, da sempre impegnate a propagandare l’arcaica visione secondo cui l’umano finirà prima o poi per essere schiacciato da quella tecnologia che egli stesso ha evocato (e non per niente i greci, per non fargli fare altre cazzate, incatenano Prometeo, simbolo della tecnica), ma gli stessi esperti di IA guardano al rapporto tra gli uomini e la rivoluzione digitale secondo un’ottica per cui il destino degli umani sarebbe quello di veder prevalere prima o poi una Superintelligenza capace di metterci in soffitta, trasformarci in schiavi, sostituirsi direttamente agli uomini. 

E tuttavia questo mio stato di totale disinteresse verso il tema dell’automazione, ossia la questione più mainstream del momento, è stato finalmente interrotto da una felice eccezione il giorno in cui ho rinvenuto nella pila di libri non letti, che dalla mia scrivania arriva al soffitto, “Documanità”, un libro di Maurizio Ferraris che non ricordavo nemmeno di aver comprato. Ferraris, ex allievo di Jacques Derrida e tra i pensatori più originali e influenti dell’epoca contemporanea, nonché – si parva licet – mio antico docente ai tempi dell’Università, mette ormai da tempo il suo stile sarcastico e dissacrante al servizio di una meritoria e godibilissima distruzione di alcune tra le teorie che hanno dominato il campo della tradizione filosofica occidentale, mostrandone i limiti e le inesattezze. Sicché ho sperato che facesse la stessa cosa nei confronti delle odierne Cassandre dell’IA. E non ho sperato invano.  

Secondo Ferraris la vera novità determinata dalla rivoluzione tecnologica-digitale non è data da altro che dall’incremento vertiginoso delle possibilità di tenere traccia e di registrare. In quest’ottica il web è il più grande apparato di registrazione che l’umanità abbia finora sviluppato. Ogni interazione con la rete lascia infatti una traccia di sé, per cui ciò che il web produce non è altro che una massa infinita di documenti, sotto forma di tracce delle nostre abitudini, gusti, preferenze e comportamenti, trasformando infine questa massa di documenti in valore e in capitale per le piattaforme, che possono venderli o gestirli per proporci merci e prodotti di consumo, mobilitando quindi nuovamente gli umani. 

Ecco, io credo che proprio da qui bisognerà partire per convincersi della signoria umana sulla tecnologia, della supremazia dell’anima sull’automa, ossia dal ripensamento del proprio essere nel mondo secondo la centralità dei consumi e dei bisogni umani come senso e fine dell’automazione. Quando, navigando in Internet o mentre faccio scrolling su qualche social, vengo bombardato di informazioni e suggerimenti che l’algoritmo – conoscendo la mia età – mi invia, relativi a impianti dentali, tinte per capelli e altro che per pudore non nomino, capisco che algoritmi e automi non vanno da nessuna parte senza un’anima, o – in altre parole – senza un organismo dotato di infiniti bisogni come il mio. Ed è per questo che non ha senso affermare la subalternità degli umani rispetto alla tecnologia. E non c’è da aver paura che all’automa interessi ciò che io penso in ambito politico e sociale: sono convinto che se in rete usassi consultare siti di armi o di associazioni fasciste del terzo millennio tipo Casa Pound, l’algoritmo mi suggerirebbe un manuale del perfetto terrorista, o del perfetto nazista. In altre parole, all’algoritmo i miei big data interessano solo come materia utile per suggerirmi prodotti di consumo.

È una vera e propria rivoluzione concettuale quella che l’umanità del futuro dovrà mettere in atto. La nostra felicità dipenderà da questo, dalla capacità di capovolgere il modo di pensare che ci ha accompagnati a lungo nel tempo, secondo cui gli umani sarebbero padroni della natura e schiavi della tecnica: perché se basta un banale virus a spiegarci la nostra precarietà naturale, è anche vero che senza di noi, senza i nostri bisogni, senza le nostre urgenze, senza i nostri desideri, senza i nostri consumi, le piattaforme, il web e gli automi in generale non avrebbero alcun senso.

Andrea Olivieri

Andrea Olivieri, goriziano, si è laureato molto tempo fa in filosofia all’Universi tà di Trieste, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Estetica con una tesi sulla natura dell’immagine e sull’immaginazione nella filosofia moderna. Ha pubblicato articoli di ricerca filosofica su riviste di settore. Professore di Filo sofia e Scienze umane presso il Liceo delle scienze umane “S. Slataper” di Gorizia, ascolta e vive rock’n’roll da quasi mezzo secolo.



Lascia un commento