Nell’universo fantascientifico di Star Trek, i cadetti dell’Accademia della Flotta Stellare devono superare un test noto come Kobayashi Maru, una simulazione ideata per essere impossibile da vincere. L’equipaggio, composto interamente da cadetti, deve decidere se soccorrere una nave in difficoltà situata in una zona neutrale. Qualsiasi azione comporta una perdita: ignorare la richiesta significa condannare l’equipaggio, intervenire rischia di provocare un incidente diplomatico con l’Impero Klingon. Il test non misura la vittoria, ma la capacità di affrontare una situazione senza via d’uscita e di prendere decisioni difficili sotto pressione.
James Tiberius Kirk fu l’unico cadetto a superarlo, ma solo perché lo riprogrammò segretamente, sostenendo di non credere all’esistenza di situazioni senza soluzione. In Star Trek II: L’ira di Khan (1982), Kirk afferma di aver ricevuto un encomio per la sua originalità tattica, ma la veridicità di questa dichiarazione è discutibile, sia perché proveniente da lui – che già in altre situazioni aveva dimostrato di avere un rapporto disinvolto con la verità – sia perché, nella versione del 2009 di J.J. Abrams, questa stessa trovata gli costa la sospensione. Forse nel 1982 Kirk voleva solo impressionare l’ufficiale vulcaniana Saavik, interpretata da una Kirstie Alley al suo debutto sul grande schermo e mai così bella.

Il rifiuto di Kirk può essere letto come una ribellione contro un destino già scritto – e scritto, per giunta, da Spock, che nel film del 2009 viene indicato come il creatore del test – un atto di sfida per dimostrare che volontà e ingegno possono prevalere sulle circostanze avverse [e sul codice di Spock]. Tuttavia, io ci ho sempre visto anche altro. Ho sempre pensato che, nel rifiutare le regole del test, Kirk tentasse inconsciamente di riscrivere il destino di suo padre, George Kirk.
George Kirk passò alla storia per il proprio eroico sacrificio a bordo della USS Kelvin. Durante un attacco della nave romulana Narada, il capitano Richard Robau fu ucciso e George, primo ufficiale, assunse il comando. Rimanendo a bordo della USS Kelvin, permise all’equipaggio, inclusa sua moglie incinta, di evacuare in sicurezza, mentre impostava una rotta di collisione con la nave nemica. Il suo sacrificio ricalca perfettamente la lezione che il test della Kobayashi Maru vuole insegnare: a volte, per proteggere ciò che amiamo, è necessario rinunciare a noi stessi. George Kirk non ha la possibilità di sfidare il sistema o di cercare una via di fuga. La sua scelta è l’unica possibile. Eppure, nonostante l’ineluttabilità della sua morte, la sua azione non è vista come una sconfitta, ma come un atto di responsabilità e amore verso l’equipaggio. È questo che lo rende un eroe.
Il tema del sacrificio personale per il bene collettivo si intreccia con la filosofia del Test della Kobayashi Maru. La sua lezione non riguarda solo la consapevolezza della nostra impotenza di fronte a certe situazioni, ma anche il modo in cui rispondiamo alle difficoltà. Non si tratta solo di leadership, ma di una riflessione sull’impossibilità di sfuggire a certe realtà. Come il sacrificio di George Kirk, ogni scelta difficoltosa ci pone di fronte al fatto che, a volte, non possiamo avere tutto. Ma l’accettazione di questa verità è ciò che ci consente di prendere decisioni con integrità, mettendo al primo posto il bene collettivo e il dovere, anche quando significa sacrificare qualcosa di personale. In questo modo, la Kobayashi Maru e il sacrificio di George Kirk diventano due facce della stessa medaglia: entrambe le situazioni ci insegnano che la grandezza di un leader non sta nell’evitare la perdita, ma nell’affrontarla con dignità e determinazione.
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