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Il blog di Oreste Patrone


Dove non siamo invitati

Qualche giorno fa, sono andato sul Calvario per esplorare un sentiero che avevo intravisto durante una passeggiata con Kyra. Non ero certo che fosse un sentiero, in realtà. Nel primo tratto, la presenza di muretti in pietra suggeriva che in passato potesse avere avuto uno scopo, tanto da essere stato messo in sicurezza; ma più avanti il tracciato si faceva meno evidente fino a scomparire nella vegetazione. 

Spinto dalla curiosità e con in mano le forbici da potatura che avevo comprato da TEDI il giorno prima, mi sono spinto avanti fin dove ho potuto. Oltre quel punto, sarebbe servito un machete, ma col senno di poi credo che mi sarei comunque fermato. Soprattutto quando ho avvertito dei movimenti sopra di me, nella boscaglia. Non mi sono spaventato – mi era già successo altre volte di sentire rumori di animali – ma mi sono chiesto se la mia presenza lì fosse davvero necessaria. Stavo invadendo uno spazio intimo, libero dall’impronta umana o nel quale questa era stata cancellata dal tempo, e lo stavo facendo solo per soddisfare una curiosità personale. Si potrebbe obiettare che è proprio la curiosità a spingerci a esplorare, che senza curiosità l’essere umano non avrebbe mai oltrepassato neanche la soglia della propria caverna, ma in un mondo come quello attuale, sempre più antropizzato, dove gli spazi naturali sono ridotti a frammenti interstiziali, mi chiedo se questa invadenza sia sempre giustificata. Se dal Calvario, per restare in tema, togliamo sentieri, strade, terreni destinati alla legna, vigne e proprietà private, quello che rimane per la fauna selvatica è davvero poca cosa.

Di fronte a quel pezzetto di bosco, reso inaccessibile dalla vegetazione, mi sono chiesto se ci fosse bisogno di imporre la mia presenza anche lì. Forse quegli animali si stavano semplicemente spostando e io non c’entravo nulla, ma forse no; forse si stavano ritraendo perché avevano avvertito la mia presenza, prima ancora che io mi interrogassi sul senso della stessa. 

Così, mentre tornavo indietro, riflettevo sul fatto che addentrandomi sui resti di quel sentiero mi sono preso la responsabilità di alterare un equilibrio, segnando un nuovo confine o, almeno, superando quello esistente. Non è una responsabilità da poco e avrebbe richiesto, forse, una riflessione più attenta. Non tutti i luoghi sono lì per essere esplorati, alcuni meritano di rimanere intatti – quelli che appartengono a chi, ad esempio, non vuole essere trovato. 

L’idea che la conoscenza di un luogo passi necessariamente attraverso la violazione dei suoi confini per raccoglierne informazioni ignora, secondo me, una questione fondamentale ossia il tipo di rapporto che vogliamo instaurare con esso. Ogni relazione significativa si basa sul rispetto e rispettare significa anche riconoscere quando è il momento di fermarsi. Il confine – scriveva Magris – non è solo separazione ma punto d’incontro e la conoscenza di un luogo può avvenire anche sostando sulla sua soglia, accettando che ci sono spazi a cui dobbiamo rimanere necessariamente estranei, ai quali possiamo appartenere solo riconoscendoli nella loro alterità. 

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