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Il blog di Oreste Patrone


Il cane come specchio di noi stessi: paura, aggressività e rapporto con la nostra parte animale

con il dott. Giuseppe Caserta

Ogni volta che un cane aggredisce una persona, soprattutto se il cane appartiene a determinate razze, l’episodio finisce immediatamente sotto i riflettori, amplificato e spesso distorto da una trattazione imprecisa e superficiale. Basti pensare al recente caso avvenuto in un piccolo paese friulano, dove nonostante la scarsità di dettagli, la notizia ha avuto grande risonanza, quasi fosse l’ennesimo tassello di una narrazione collettiva costruita sulla paura.

Di fronte a tutto questo, mi chiedo se le aggressioni canine rappresentino davvero un problema così significativo. Parlo in termini di numeri, non di casi singoli: è evidente che la perdita di una vita per un attacco di un cane sia un evento grave e drammatico, anche se fosse un caso isolato. Per comprenderlo, sarebbe utile analizzare le statistiche e distinguere il rischio reale da quello percepito. Nelle conclusioni di un’indagine epidemiologica di qualche anno fa, scaricabile dal sito del Sindacato Italiano Veterinari Medicina Pubblica, relativo alle aggressione ad esito letale in Italia dal 1984 al 2009, si legge che “Il fenomeno [delle aggressioni] per sé non ha prevalenze tali da rendersi vera emergenza in termini di salute pubblica, ma i risvolti emotivi che ogni volta, con frequenza almeno annuale, uno di questi casi provoca nell’opinione pubblica e nella sensibilità collettiva di per sé dovrebbe giustificare il ricorso a studi mirati che a tutt’oggi difettano sia a livello internazionale sia, in maggior misura, nazionale.” Non ho trovato altre informazioni più recenti che avessero la stessa autorevolezza. Dunque mi chiedo: le aggressioni canine costituiscono una minaccia concreta o sono un timore amplificato? L’opinione pubblica si divide, sul punto, mentre politici ed esperti da salotto invocano normative sempre più restrittive, come patentini per i proprietari di cani appartenenti a determinate razze o corsi obbligatori [ai quali avevo già a suo tempo dedicato un articolo].

Quello che mi domando, però, è da dove nasca questa paura.
Si tratta davvero di timore verso i cani o dietro questa reazione si cela qualcos’altro? Forse il cane è un simbolo, un catalizzatore di ansie più profonde e radicate. La paura, d’altronde, è una materia complessa. È possibile che la vera minaccia non siano gli animali, ma il nostro rapporto con ciò che non possiamo controllare?

Poiché non ho una risposta certa a queste domande, ho deciso di rivolgerle a un amico che di certe cose se ne intende. Sto parlando, ovviamente, del dottor Giuseppe Caserta.
Bentornato, Peppe.

Grazie mille come sempre Oreste.
Il tema attorno a cui discutiamo oggi è sicuramente dei più complessi, e non basteranno poche righe a rendere giustizia ad un argomento così delicato, ma vale la pena tentare! Credo che valga innanzitutto la pena partire dalla scelta di un determinato tipo di animale piuttosto che un altro. Perchè preferiamo una razza a discapito delle altre? Diciamo subito che scegliere un cane non è mai un atto casuale: molto spesso dietro a questa scelta si nascondono motivazioni psicologiche profonde, che riguardano la personalità del proprietario, il suo mondo interiore e i suoi bisogni affettivi inconsci. Si può dire quindi che la scelta sia correlata alla personalità e allo stile di vita del proprietario. Ad esempio, persone con un carattere energico e dinamico tendono a scegliere cani altrettanto attivi; contrario, individui più introversi, riflessivi o emotivamente sensibili potrebbero orientarsi verso cani dal temperamento calmo. Detta così suona riduttiva ovviamente, ma il concetto generico è che – come moltissime altre scelte che facciamo – essa avvenga soprattutto in base al principio psicologico della somiglianza e complementarità: siamo attratti da ciò che ci somiglia o che compensa aspetti di noi stessi percepiti come mancanti o desiderabili. Il cane, quindi, può rappresentare anche una parte di noi stessi che desideriamo esprimere o un tratto che vogliamo rinforzare, come ad esempio la socievolezza o la sicurezza di sé, ma anche parti ombra, come aspetti che giudichiamo poco gradevoli o socialmente scoraggiati [guarda caso l’aggressività].

Ciò ci porta inevitabilmente a parlare di un fenomeno psicologico molto interessante che avviene nell’ambito relazionale: la proiezione. Essa consiste nell’attribuire inconsciamente al cane – ma lo facciamo anche con gli altri umani – sentimenti, pensieri, e caratteristiche che appartengono più propriamente al proprietario. Questa dinamica può essere positiva, permettendo all’umano di entrare in contatto con aspetti di sé poco riconosciuti, ma può anche complicare la relazione, soprattutto quando le aspettative proiettate sull’animale diventano eccessive o irrealistiche, soprattutto nel caso di emozioni come l’aggressività, che tendiamo troppo facilmente ad associare al modo che noi abbiamo di viverla. Nell’aggressività animale osserviamo chiaramente una funzione puramente istintiva: essa è legata a necessità di sopravvivenza, difesa del territorio e protezione della prole. Negli esseri umani, invece, l’aggressività, pur avendo radici profondamente istintuali e arcaiche, ha anche subito un processo di elaborazione culturale che l’ha resa enormemente più complessa, legandola ad esempio a questioni ideologiche, religiose o filosofiche: questo rende più complesso per noi fare una operazione di confronto tra le due specie che rimanga su un piano puramente comparativo.

Osservando l’aggressività del cane, l’uomo spesso reagisce con sorpresa, paura o condanna morale: vediamo spesso l’animale come un mostro fuori controllo, oppure tendiamo a incolpare tout court il padrone, rendendo il cane quasi una mera estensione biologica dello stesso. In ogni caso, dimentichiamo la psicologia canina, ma allo stesso tempo neghiamo ogni qual volta etichettiamo un cane come “mostro” che tali impulsi sono analogamente presenti anche nella psiche umana. Chiunque ascolti un notiziario in questi giorni si renderà facilmente conto che in guerra siamo capaci di brutalità che farebbero impallidire la ferocia anche del più temibile predatore del regno animale. Il cane, in questo senso, diventa uno specchio che riflette le nostre componenti istintuali, spesso rimosse o negate dalla coscienza. Questa consapevolezza può risultare difficile da accettare perché mette l’essere umano davanti alla propria animalità, rompendo l’illusione di superiorità rispetto al mondo naturale, del quale come ci ammoniva Jung faremmo bene a considerarci parte, per non distaccarci intellettualmente dai sani limiti che ci impone la nostra biologia. Il comportamento spontaneo e privo di censura morale dell’animale ci obbliga a considerare come noi stessi gestiamo istinti, emozioni e bisogni primari.  Riconoscere che anche la nostra aggressività ha una componente istintuale ci permette di vivere una vita emotiva più autentica e meno conflittuale, gestendola meglio nel rapporto con gli altri. Al contrario, negare o reprimere questa consapevolezza può portare a una relazione conflittuale con l’animale – che considerandosi parte del branco può essere molto condizionato dal nostro atteggiamento – o a una scissione interna che genera disagio, poichè non ci sentiamo legittimati a “permetterci” di provare emozioni e affetti etichettati come negativi, arrivando nel caso del rapporto con il cane a negarli anche a lui con metodi coercitivi, invece di incanalarli e gestirli nell’ambito della relazione. In conclusione, credo che il rapporto con i nostri “simbionti” cani – che a quanto pare ci adorano come partner evolutivi e vengono altrettanto ricambiati – ci permette di esplorare ulteriormente la psiche umana, permettendoci di riscoprire e integrare la nostra parte più ancestrale e radicata nella biologia. Questo incontro tra psiche umana e istinto animale non solo arricchisce la nostra relazione con il cane, ma anche e soprattutto la nostra conoscenza di noi stessi.

dott. Giuseppe Caserta
Psicologo Analista junghiano e psicoterapeuta, mi occupo di clinica di adulti e adolescenti e di supervisione di casi clinici per i colleghi. Sono anche docente presso la scuola di specializzazione in psicoterapia Istituto Gaetano Benedetti di Assisi e direttore scientifico della scuola di  arteterapia Atakrea di Castelfranco Veneto.



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