con il dott. Giuseppe Caserta
Ieri sera ho terminato la visione della prima stagione di Fallout, la nuova serie Prime ispirata all’omonima saga videoludica Bethesda. Mi ha colpito, tra le varie cose, la presenza della Confraternita d’Acciaio, una fazione già nota ai fan del gioco, che nella serie mantiene la propria identità caratterizzata da un legame quasi religioso con la tecnologia e con il passato bellico dell’umanità. Una sorta di culto tecnocratico, che riproduce gerarchie monastiche e rituali da ordine cavalleresco, in un mondo dove tutto è andato distrutto.
Spesso, nelle narrazioni post-apocalittiche e distopiche, emergono culti, sette e religioni sincretiche che si radicano nel vuoto lasciato dal collasso delle società precedenti. Waterworld, ad esempio, che ho già citato in un post sul blog, propone la setta degli Smokers guidata dal carismatico Diacono [interpretato da Dennis Hopper], che si rifà a una figura divinizzata di Old Saint Joe, reinterpretazione del comandante Joseph Hazelwood. In Mad Max: Fury Road, troviamo invece la figura di Immortan Joe, leader assoluto di una comunità fanatizzata, in cui il potere politico e quello religioso si fondono, e dove le sue parole vengono accolte come dogmi, i suoi ordini come rivelazioni.
Anche in opere meno immediatamente associate al genere post-apocalittico, come Il racconto dell’ancella [The Handmaid’s Tale], il tema è presente: i Comandanti della Repubblica di Gilead sono sia leader politici sia ministri di culto, e l’ideologia religiosa è strumento di controllo e legittimazione del potere. E potrei davvero continuare a lungo: basta pensare a Codice Genesi, L’Ombra dello Scorpione, Il Mondo nuovo o anche a videogiochi come The Last of Us, dove emergono comunità con tratti religiosi nel loro modo di interpretare la sopravvivenza.
Mi sono chiesto se non ci sia, dentro l’essere umano, una pulsione profonda, quasi inevitabile, a cercare certezze e figure salvifiche nei momenti di massima incertezza e paura. Quando tutto crolla — le istituzioni, la scienza, la tecnologia — forse il bisogno di ancorarsi a qualcosa che trascenda l’immediato diventa primario. Dio, la religione, il culto: in questi contesti non sono solo spiritualità, ma strutture di senso, di appartenenza, di sopravvivenza psicologica. Forse nei mondi post-apocalittici la fede — o ciò che ne rimane — diventa la risposta istintiva alla disgregazione dell’identità.
E quando penso a queste dinamiche, non posso non dare voce e spazio a chi, di mente umana e bisogno spirituale, se ne intende davvero. Il nostro amichevole psicanalista di quartiere, il dott. Giuseppe Caserta, ha sempre qualcosa di illuminante da dire su questi temi. Gli passo quindi la parola, curioso di sapere come si muove, secondo lui, la psiche umana tra macerie e divinità.

Grazie, Oreste, e un saluto ai lettori!
L’argomento è interessantissimo, ma devo fare prima una premessa doverosa: tutto ciò di cui parlerò si riferisce esclusivamente all’esperienza umana del Divino, e non avrà nulla a che fare con affermazioni legate alla divinità stessa o all’esistenza o meno di un potere superiore. La psicologia non è la teologia, e quindi non può occuparsi di verificare l’esistenza o l’inesistenza di un Dio, né questo è un ambito di suo interesse. Piuttosto, essa si occupa di comprendere come l’essere umano si ponga di fronte al senso religioso.
Secondo Jung, quest’ultimo è infatti una delle caratteristiche innate dell’essere umano, al pari di altri istinti come la fame, la sete o il bisogno di riproduzione: abbiamo testimonianze di cerimonie religiose o di siti sacri risalenti persino a 10.000 anni prima di Cristo, e tutto questo senza considerare le pitture rupestri o i monili ritrovati nelle sepolture delle varie specie di Homo (sapiens, Neanderthal, Denisoviano, ecc.).
Ad oggi, sappiamo che da un punto di vista psicologico esiste una religione arcaica e universale, che è lo sciamanesimo, la quale si è poi evoluta nel politeismo e nel monoteismo, accompagnando i cambiamenti sociali e culturali dell’umanità. Da sempre, quindi, l’essere umano si è confrontato con un senso religioso.
Le varie confessioni religiose, come il Cristianesimo, l’Islam o il Buddhismo, sono da un punto di vista psicologico semplicemente diverse declinazioni di questo senso: anche l’ateismo, da questo punto di vista, è una forma di fede, perché ripone la propria speranza nel progresso e nella scienza, ed esclude – senza una prova scientifica – l’esistenza di una qualche potenza superiore, al pari di chi crede in un Dio, nonostante non possa dimostrarne tangibilmente l’esistenza.
Detto ciò, è chiaro che la religione ha sempre avuto una funzione sociale oltre che spirituale: gli esempi si sprecano, dai regimi basati su un particolare credo religioso all’ispirazione nella creazione di leggi o nella regolamentazione dei rapporti sociali. Tuttavia, la religione ha anche una potente funzione di contenimento rispetto alle angosce esistenziali dell’uomo: essa, infatti, cerca di fornire risposte esaustive alla nostra più grande paura, ovvero la dissoluzione della nostra individualità dopo la morte.
Quale che sia il credo, le religioni offrono sempre un messaggio di speranza e di continuità, promettendoci una forma di vita dopo la morte e permettendoci di pensare che i nostri cari, che hanno attraversato la soglia, siano in qualche modo al sicuro o – in alcuni casi – che si possa addirittura interagire con loro, integrandoli nella comunità umana anche dopo il trapasso.
Sigmund Freud sosteneva che la religione fosse un sostituto simbolico di una figura paterna onnipotente, e che quindi servisse da protezione rispetto alle angosce esistenziali dell’uomo. Sebbene trovi questa posizione riduttiva e molto inquinata dalle idee personali dell’autore sulla materia (Freud era ateo e critico verso la sua religione di appartenenza, ovvero l’ebraismo, nonché disilluso e amareggiato dal trattamento che la sua gente riceveva dalla società del tempo), a mio avviso essa sottolinea comunque un aspetto importante: il senso religioso è anche un rifugio dall’angoscia, oltre che una potente forza propulsiva.
La religione è quindi forse lo strumento più potente della psiche umana, e chi ne sminuisce l’importanza relegandola a un “nient’altro che” non ne comprende la portata da un punto di vista psicologico. Il fattore di contenimento che le credenze religiose offrono si è dimostrato determinante persino nella cura di alcune dipendenze gravissime (gli Alcolisti Anonimi, ad esempio, fanno del senso spirituale uno dei cardini del loro percorso, così come molte comunità per tossicodipendenti si basano su una filosofia religiosa), o nel trattamento delle psicosi.
Su questo punto, non mi si fraintenda: così come la psicologia non può sostituirsi alla teologia, è vero anche il contrario. La fede può essere un supporto e una motivazione, ma non può bastare da sola nella cura e nel sostegno di una psiche sofferente, perché in quel caso la medicina e la psicoterapia sono indispensabili.
Stupisce poco a mio avviso che quindi una forza così potente si esprima in un contesto catastrofico: nei film che tu citavi, assistiamo sistematicamente al crollo della civiltà tecnologica come la conosciamo oggi, e alla nascita di un mondo regolato da leggi spietate e istintuali. Che si tratti della realtà post-atomica di Fallout, oppure di quella di Mad Max, il motivo portante è sempre la caduta degli dèi moderni, ovvero quelli del progresso e della tecnica.
Non stupisce quindi che, di fronte a questo Ragnarok tecnologico, si ritorni a una forma di religiosità completamente opposta, basata sulla fascinazione e sullo spirito, in contrasto con il materialismo che caratterizzava la società ipertecnologica precedente. Inoltre, di fronte alla potenza della catastrofe che in questi film ha spazzato via l’umanità, sembra logico pensare che coloro che rimangono si rifugino sotto l’ombrello dell’unica forza in grado di proteggerli dall’apocalisse: un Dio, di qualche genere.
Quando Oppenheimer contemplò il fungo atomico generato dalla bomba che aveva contribuito a creare, gli venne da mormorare un passo delle Sacre Scritture induiste che recitava: “Io sono Morte, il distruttore di mondi”.
Ritengo che in questo piccolo aneddoto ci sia tutto ciò a cui ti riferivi: l’atavico terrore di fronte a una potenza distruttiva al di là della nostra comprensione, e l’identificazione con una forza altrettanto potente, capace non solo di distruggere, ma anche di creare tutto ciò che esiste.



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