L’emergenza sanitaria da COVID-19 è ormai un ricordo relegato nei recessi della nostra memoria collettiva, un capitolo delle nostre vite doloroso e controverso, ma concluso. A volte, penso che abbiamo attraversato la tempesta della malattia, delle restrizioni, della solitudine, dei lutti e delle sfide quotidiane con la sensazione di trovarci di fronte a una pagina da voltare il più in fretta possibile, inseguendo la speranza di un ritorno rapido alla normalità. Mi chiedo cosa è rimasto di quel periodo, oltre ai ricordi.
Ogni esperienza, se vissuta fino in fondo, dovrebbe generare un residuo, qualcosa che ci arricchisca, che trasformi il dolore in un insegnamento. Tuttavia, guardandomi attorno, ho la sensazione che dell’esperienza legata al COVID-19 non sia rimasto molto. Eravamo così impazienti di riprendere la nostra routine, di lasciarci alle spalle la sofferenza, che siamo montati a bordo dei nostri monopattini elettrici e abbiamo accelerato, come se l’unica cosa che contasse fosse chiudere velocemente quella parentesi dolorosa. È umano, comprensibile: non tutti vogliono o possono affrontare un’elaborazione interiore così complessa. Talvolta, semplicemente, il dolore è troppo grande.
Tuttavia, se avessimo avuto il coraggio di lasciare aperta quella porta un po’ più a lungo, se avessimo guardato la paura negli occhi, forse saremmo riusciti a imparare qualcosa. Il fatto che nessuno parli più del COVID, nonostante l’enormità dell’impatto che ha avuto sulle nostre vite, che lo si sia voluto archiviare il più in fretta possibile – almeno questa è la mia impressione – non fa che confermare l’idea di una difficoltà collettiva di affrontare una cosa che ci ha colpito così nel profondo.
Abbiamo imparato quanto siano fragili i nostri legami, abbiamo visto amicizie decennali fatte a pezzi dai colpi di parole rese taglienti dalla paura e dalla diffidenza, abbiamo imparato come la nostra vita quotidiana possa essere stravolta in un istante, talvolta per sempre. Le videochiamate ai compleanni, i festeggiamenti a distanza, la costrizione in spazi ristretti hanno cercato d’insegnarci qualcosa che in una normalità tranquilla, avremmo ignorato. Ma più di tutto, ci avrebbero potuto insegnare a riscoprire l’inedito nelle piccole cose, nel nostro quotidiano, negli spazi che spesso diamo per scontati. Mio figlio che giocava a fare il fattorino degli alimentari e prendeva gli ordini dei clienti, le lunghe telefonate con i miei genitori, la riscoperta del giardino condominiale come unico luogo di libertà. Quei momenti, quegli spazi limitati diventati un’opportunità di esplorazione; quel mondo ristretto diventato metafora di un viaggio interiore, uno spazio dove siamo stati costretti a fermarci e riflettere. Forse è questo il vero insegnamento che il COVID avrebbe potuto darci: che la bellezza non sta nell’eccezionale, ma nell’ordinario, nel conosciuto che acquista nuova luce quando siamo disposti a rallentare e ad ascoltare.
La mia impressione è che la società non abbia saputo ascoltare; che abbia preferito abbracciare la normalità a tutti i costi, convinta di correre avanti quando in realtà inseguiva un impossibile ritorno al prima, come se solo attraverso il ritorno alle vecchie abitudini potessimo ritrovare un equilibrio perduto. Mi dispiace perché so per esperienza che le crisi hanno il potere di trasformare le persone; di migliorarle, se affrontate con consapevolezza. La paura e la sofferenza riescono a scavare nell’animo umano come nient’altro al mondo, portando alla luce risorse che non avremmo mai immaginato di possedere. Tuttavia, quando una crisi viene solo subita, quando si evita di guardare ciò che ci ha insegnato, finiamo per rinunciare al cambiamento che avrebbe potuto innescare.
Non voglio tornare a quel periodo, ma vorrei recuperare ciò che avremmo potuto imparare. Forse, se avessimo avuto il coraggio di trattenere il dolore un po’ più a lungo, ci saremmo accorti che dietro la sofferenza si nascondeva una lezione: potevamo essere tutti migliori di così.
Possiamo ancora esserlo.
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