Chi mi segue, sa quanto ami questi cani.
È un amore nato molto prima che Kyra entrasse nella mia vita, quand’ero ancora bambino — avevo dieci anni quando vidi due Rottweiler per la prima volta. Non sapevo niente di loro, a parte che erano bellissimi, e mi bastava.
Con gli anni, la passione si è evoluta, ha attraversato fasi alterne e infine, con l’arrivo di Kyra, è maturata spingendomi a leggere, studiare e ascoltare l’opinione di esperti ogni volta che se n’è presentata l’occasione: per capirci di più, ma anche il piacere di discutere con persone competenti. È stato così, attraverso un post sui social sul tema dell’addestramento alla difesa, che mi sono imbattuto in un’espressione splendida: deriva motivazionale. Il merito è della dott.ssa Maria Chiara Catalani, veterinaria esperta in comportamento animale e figura di riferimento nel panorama delle scienze comportamentali, con la quale ho avuto il privilegio di confrontarmi, che l’ha usata per commentare il mio post. Un’espressione così affascinante da dare impulso a un nuovo capitolo della mia ricerca. Mi sono chiesto: quali eventi o dinamiche hanno trasformato questa splendida razza nel bersaglio di stereotipi tanto semplicistici e infondati? E perché ciò è avvenuto? Ma, soprattutto, cos’è la deriva motivazionale e perché è rilevante ai fini di questo articolo?
Il concetto è intuitivo, ma credo che una spiegazione più articolata — per quanto limitata dalle mie capacità e dalle mie conoscenze — possa aiutare a rendere più chiaro il collegamento, per come è emerso ai miei occhi attraverso le letture degli ultimi giorni.
Si parla di deriva motivazionale quando una motivazione, inizialmente sana e normale, diventa predominante e si manifesta in comportamenti sproporzionati o inappropriati rispetto alla situazione. Ogni cane è guidato da una serie di motivazioni innate — come l’istinto predatorio, il desiderio di proteggere il territorio, la difesa del gruppo sociale o la collaborazione con l’uomo. Quando queste motivazioni sono bilanciate, danno vita a comportamenti consoni, utili e adatti all’ambiente in cui il cane vive. Il problema nasce quando una di queste spinte viene esasperata. Se prendiamo un cane con una forte motivazione protettiva, di fronte a una minaccia questi dovrebbe attivare una reazione proporzionata, orientata a contenere e, se necessario, a neutralizzare il rischio. Se però questa motivazione deraglia, il cane potrebbe iniziare a vedere pericoli anche dove non ci sono e reagire con comportamenti esagerati.
Per rendere più chiaro il concetto, ho deciso di ricorrere a un esempio. Supponiamo di incontrare per strada un ragazzino, un giovane uomo in cerca di se stesso. Non sa bene cosa potrebbe diventare, perché ha tante attitudini, tanti talenti e tante capacità da sviluppare, ma anche un fisico imponente, da lottatore. Allora io, che sono un allenatore senza scrupoli, intuendo il potenziale economico del suo fisico, decido di metterlo sotto contratto e di indirizzarlo verso il pugilato, manipolando la sua mente giovane col mio carisma.
Il ragazzo è bravo, è competitivo, vuole essere più forte degli altri. Così picchia il sacco più forte di tutti: è impressionante quanta forza riesca a mettere in quel gesto. Picchia, picchia fortissimo. Impara a picchiare sempre più duro e non fa altro, tutto il giorno.
Tutte le belle cose che c’erano in lui, pian piano vengono dimenticate, mentre quella singola capacità — il colpire — si fortifica, si sviluppa, diventa robusta e totalizzante. In aggiunta, incurante di tutto quello che in quel ragazzo sta lentamente morendo, intuendo la sua fragilità emotiva e il suo bisogno di approvazione, io premio questo comportamento: più forte picchia e più grande è la mia gratificazione.
Per completare l’opera e assicurarmi che neanche per sbaglio possa interessarsi ad altro che non sia il suo sacco, lo trasferisco in uno stanzone vuoto e buio. Una sola lampada al centro, sospesa sopra il sacco.
Nient’altro.
Quel ragazzo, che aveva un potenziale enorme, che avrebbe potuto fare qualunque cosa nella sua vita, a un certo punto non sa più fare altro che prendere a pugni un sacco che è diventato il centro del suo mondo e l’unica cosa che gli dia un senso. Da quel momento in poi, tutto ciò che incontrerà sarà, per lui, un sacco da colpire.
Ho reso l’idea?
Il quadro, già così abbastanza compromesso, è stato aggravato da una narrazione mediatica sensazionalistica, pronta ad amplificare episodi isolati di aggressione senza mai interrogarsi sulle radici del problema, che ha alimentato una sensazione di allarme collettivo che indotto di conseguenza la politica a considerare decisioni sulle quali preferisco non soffermarmi ma che alimentano un circolo vizioso di disinformazione e paura, finendo per allontanare ulteriormente l’opinione pubblica da una reale comprensione del fenomeno.
Senza invadere ambiti che competono agli specialisti, non credo ci sia qualcuno disposto a dubitare del fatto che lo sviluppo cognitivo e comportamentale di un individuo è influenzato, oltre che dalla genetica — che costituisce presupposto ineludibile — dall’ambiente, dalla qualità dell’educazione ricevuta, dalle esperienze fatte e dalla competenza — o incompetenza — di chi ha la responsabilità di guidarlo.
C’è un allevamento, che seguo da tempo, di cui non faccio il nome per rispetto della loro discrezione, che rappresenta un esempio etico. Osservare come allevano i loro cani è un’esperienza che parla da sé: è un concentrato di competenza, passione e, soprattutto, di un amore e un rispetto così profondi e autentici da riflettersi nell’ambiente stimolante e positivo in cui crescono i loro cuccioli.
Contro realtà come questa si erge un’ombra, costruita su stereotipi deformanti, che nulla ha a che vedere con il vero potenziale del Rottweiler. Questo cane possiede un patrimonio motivazionale complesso e raffinato, molto lontano dalla sola dimensione della difesa. È un cane dotato di intelligenza sociale, sensibilità emotiva, capace di instaurare legami di intensa lealtà e collaborazione col suo proprietario. Ha bisogno di relazione, desidera cooperare, sa modulare le proprie energie in funzione del contesto e delle persone che ha accanto.
È un animale pensante, non un riflesso automatico di forza.
Sacrificarlo al mero ruolo di cane da guardia o da atteggiamento, assecondando uno stereotipo che ne mortifica la complessità, non è solo un errore: è un impoverimento della sua natura, quella di un grande cane, capace di grandi cose a patto che chi lo guida sia all’altezza di questa responsabilità.
Un Rottweiler, se ben allevato ed educato, non è un rischio da gestire.
È una bellezza da ammirare.
MinimiTermini



Lascia un commento