Dal momento che oggi non sono uscito in bici e che la rete aziendale non vuole saperne di funzionare, già che ci siamo, direi di parlare anche del linguaggio tossico che infesta il dibattito pubblico globale; un linguaggio che non nasce dalla realtà, ma da una paura costruita a tavolino da chi ha tutto da guadagnare da una società spaventata, sospettosa e in cerca di capri espiatori.
Prendiamo l’espressione “sostituzione etnica”, che ho letto l’altro giorno. Che espressione odiosa! Finge di descrivere un processo in atto, ma in realtà lo inventa di sana pianta e lo usa come leva identitaria. Io non dico di leggere un libro – non sia mai! – ma almeno quella rete nel cui anonimato tanti trovano conforto e protezione, almeno quella, costoro potrebbero usarla per informarsi, magari selezionando le fonti. Se lo facessero, scoprirebbero che il concetto di sostituzione etnica nasce – guarda caso – negli ambienti dell’estrema destra francese, per opera di Renaud Camus [The Great Replacement: Introduction to Global Replacism – si trova anche su Amazon] e si diffonde rapidamente in tutta Europa e oltre, diventando la base di un complotto globalista secondo cui sarebbe in corso la sostituzione forzata dei popoli autoctoni europei con immigrati, minacciandone purezza, cultura e identità. [Questa della purezza sono sicuro di averla già sentita ma non ricordo dove] Se poi, tra una cospirazione e l’altra, dovesse avanzargli del tempo e volessero usarlo meglio che con Camus, potrebbero leggere L’alba della storia di Guido Barbujani [Ed. Laterza].
Si tratta di un allarme che ignora completamente la complessità dei flussi migratori, le dinamiche storiche, le cause economiche, sociali e geopolitiche delle migrazioni. Un allarme che non spiega nulla, ma serve a incanalare rabbia e risentimento verso chi è già ai margini. Negli ultimi anni, il calo della natalità nei paesi occidentali è stato strumentalizzato per alimentare l’idea che la diminuzione della popolazione autoctona sia il preludio di un processo di sostituzione. In realtà, gli studi dimostrano che le variazioni nei tassi di natalità sono il risultato di fattori economici, sociali e culturali [Giovanni forti – Gli effetti della crisi sulla fertilità; Sofia Petrarca – La natalità può aumentare ma richiede politiche impegnative sul modello di Francia e Svezia; Ojala, Zagheni, Billari e Weber – Fertility and its Meaning: Evidence from Search Behavior]
Questa retorica della paura ha attecchito anche in Italia, trovando oggi un terreno più fertile che mai. Riappare puntualmente a ogni campagna elettorale e a ogni episodio di cronaca che presti il fianco a una manipolazione emotiva efficace. Il suo meccanismo è semplice: costruire un nemico, interno o esterno, da contenere, mascherando così un inquietante vuoto di visione. Se esiste qualcuno da temere, da odiare, si può facilmente distogliere l’attenzione dagli altri problemi che affliggono il Paese. È questo il grande inganno dell’odio: è semplice, immediato, non richiede spiegazioni complesse e, dunque, non esige studio.
Parallelamente alla retorica della paura, si intensifica quella della radicalizzazione. Radicalizzarsi significa chiudersi, irrigidirsi, aderire a un’ideologia che rifiuta il confronto e alimenta l’illusione dell’autosufficienza culturale. Ma questo accade anche – e sempre più spesso – nel cuore della nostra società: nelle frange dell’estrema destra, nei movimenti identitari. La radicalizzazione è un fenomeno complesso. Esiste una bibliografia sconfinata, sull’argomento [cito solo due fonti gratuite e di facile accessibilità: Margot Zanetti – The radicalisation phenomenon through young people: environmental, individual vulnerabilities and prevention’s strategies; Stefania Ulivieri – Adolescenza e radicalizzazione tra trauma sociale e fragilità individuale. Il caso della Francia] Nasce dalla solitudine, dal senso di esclusione, dalla perdita di orizzonte. Colpisce chi non si sente rappresentato, chi cresce senza appartenenza né prospettiva. Ma anziché affrontarla come una frattura sociale, educativa e culturale, la si usa come spauracchio. Si confonde il disagio con la minaccia, si reprime ciò che si dovrebbe comprendere, e così si consolidano proprio quei processi che si volevano prevenire.
Così facendo, il dibattito si riduce a una battaglia di slogan. Una semplificazione comoda, ma falsa. Chi parla di sostituzione etnica non difende l’identità europea: la svilisce. Non conosce la storia stratificata e meticcia del nostro continente. Ma, soprattutto, non sa niente della democrazia, che non è purezza: è confronto, è compromesso. È contaminazione.
Sì, contaminazione, una parola che evoca impurità, mescolanza, contatto tra materiali eterogenei. Ma è proprio nello sporcarci, nel contaminarci, che diventiamo più forti. Perché aggiungiamo imperfezione all’imperfezione, trovando in quest’ultima la nostra resistenza all’illusione di una perfezione impossibile.
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