Mamma è mancata il 26 febbraio del 2021. È inutile dire che mi manca ogni giorno. Tempo fa le avevo dedicato un articolo in cui raccontavo quanto il suo sacrificio fosse stato per noi figli un esempio, una guida per affrontare tutto ciò che è venuto dopo – la perdita, le difficoltà, la vita in generale.
Oggi, tuttavia, non voglio tornare su quel ricordo, ma soffermarmi su una consapevolezza che affiora con forza proprio in giornate come questa. Le ricorrenze, in fondo, sono come caselle da riempire, occasioni che sembrano chiederti di collocare lì una persona, un gesto, una presenza. Ma quando quella persona non c’è più, ti ritrovi a riempire quella casella con un ricordo. E un ricordo, per quanto prezioso, ha una consistenza diversa: è più sfumato, più evanescente. Ti costringe a fare i conti con l’assenza. Ti obbliga a quel compromesso fragile tra memoria e realtà.
In questo tempo, mi accorgo sempre di più che accettare questo compromesso – accettare che alcune caselle della mia vita restino vuote, o siano abitate solo da un’immagine – è una delle cose che più mi ha fatto crescere. Non è solo una questione di memoria o di culto del passato. Anzi, a volte mi infastidisce quel modo un po’ retorico di ricordare i propri cari come se fossero stati la sola fonte di senso della propria vita. Non è di questo che parlo.
Quello che sento è qualcosa di diverso: l’assenza come elemento necessario. Il dolore della perdita come spazio dove impari a stare. Perché ci sono dolori che non si superano, ma si abitano. E in quel confronto continuo, silenzioso, impari qualcosa di essenziale su te stesso.
Buona festa della mamma, ovunque tu sia, Antonietta. In ritardo, lo so. Ma io, per certe cose, ho bisogno di tempo.


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