In un articolo di qualche tempo fa, avevo affrontato il tema del cosiddetto patentino per la conduzione dei cani e devo ammettere che la notizia apparsa ieri sul Corriere della Sera — secondo cui la Regione Lombardia avrebbe depositato in Parlamento una proposta di legge nazionale per disciplinare criteri e modalità di rilascio del suddetto patentino — ha suscitato in me una profonda perplessità.
Non sono contrario, in linea di principio, a provvedimenti che inducano a una maggiore consapevolezza da parte di chi condivide la propria vita con un cane. Conoscere le basi del comportamento, della comunicazione interspecifica e del benessere animale dovrebbe essere patrimonio comune. In quest’ottica, l’idea di un corso teorico della durata di dieci ore potrei anche tollerarla.
Dove la proposta inizia a incrinarsi è nella previsione di sei ore di corso pratico e, soprattutto, nella scelta degli enti erogatori e nelle modalità di valutazione previste per l’animale. L’elemento più controverso riguarda infatti l’introduzione del test CAE-1. Nel tentativo di comprendere meglio, ho consultato il sito dell’ENCI: il test prevede dieci esercizi, alcuni dei quali — ad esempio, la capacità del cane di restare imperturbabile mentre il conduttore si allontana o durante il passaggio ravvicinato di persone sconosciute — nella loro impostazione, mi sembrano poco rappresentativi della relazione quotidiana e reale tra cane e referente umano.
Con Kyra ho costruito un rapporto basato sulla fiducia reciproca e sul rispetto delle sue soglie emotive. Non ci siamo mai allenati a simulare situazioni di iperstimolazione ambientale o compressione sociale, come accadrebbe se quattro o cinque figuranti si stringessero intorno a lei in uno spazio ristretto [altro esercizio del test]. Kyra è abituata a cercare la mia presenza per sentirsi sicura: è una strategia relazionale, non un deficit comportamentale.
Ciò che mi lascia più interdetto, però, è la conseguenza prevista dal mancato superamento del test: l’obbligo permanente di museruola e di guinzaglio in ogni contesto. In pratica, un cane che esprime disagio in un ambiente artificiale e potenzialmente ansiogeno, viene automaticamente classificato come a rischio, con una misura restrittiva applicata in modo indistinto, senza alcuna reale capacità predittiva circa il comportamento aggressivo.
Mi chiedo se questa sia davvero una modalità cautelativa o piuttosto una scorciatoia normativa, incapace di distinguere tra cani che necessitano di contenimento e cani che, semplicemente, hanno stili relazionali diversi. La qualità della relazione uomo-animale non si misura con la docilità passiva o con la desensibilizzazione sistematica. Si misura nella fiducia, nello scambio di segnali, nella capacità del referente umano di riconoscere e gestire le emozioni del proprio compagno animale.
Mi rattrista constatare che, nonostante il lavoro di sensibilizzazione portato avanti da etologi, educatori e divulgatori competenti, si continui a privilegiare un approccio standardizzato, prestazionale e poco rispettoso delle individualità. Si può fare formazione, certo. Ma non si può ridurre la relazione a un protocollo di addestramento.
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