Credo sia capitato a tutti, almeno una volta, di fantasticare su una vincita milionaria. È un tema che emerge spesso nelle conversazioni leggere, da pausa caffè: “Se vincessi al Superenalotto cambierei vita, smetterei di lavorare.”
Dietro la leggerezza del tono, però, almeno io intravedo quasi sempre un’insoddisfazione strisciante. È come se quel pensiero racchiudesse il desiderio non tanto di migliorare la propria vita, quanto di fuggire. Fuggire da una vita che a molti appare inadatta ai propri desideri, frustrante e troppo stretta.
Quando provo a giocare anch’io con questa fantasia, mi accorgo che nessuna delle immagini che riesco a evocare mi convince davvero. Sono consapevole che una vincita del genere offre possibilità quasi illimitate e tuttavia fatico a visualizzare uno scenario che mi sembri davvero appagante. Forse è solo perché quei soldi non li ho realmente tra le mani e non riesco a pensare in termini concreti. Sospetto, tuttavia, ci sia dell’altro.
Credo che il fascino del Superenalotto non risieda tanto nei soldi in sé, quanto nel potenziale che rappresentano: una via d’uscita dalla propria esistenza così com’è. Il sogno non è quello del benessere, ma della discontinuità, del cambiamento repentino e senza sforzo. In un contesto sociale in cui il cambiamento appare sempre più arduo, in cui l’idea stessa di farcela con le proprie forze vacilla di fronte a un indice di mobilità sociale che ci colloca agli ultimi posti in Europa, dietro Spagna e Portogallo, la possibilità di una svolta improvvisa, gratuita e definitiva è forte.
Nel mio caso, credo che la difficoltà nel costruire scenari futuri appaganti derivi dal fatto che ho passato anni cercando di ancorare la mia attenzione al presente, di contenere le fughe in avanti della mente. Ho imparato che non c’è poi tanta differenza tra un futuro immaginato come radioso e uno temuto come disastroso: entrambi sono proiezioni della nostra ansia. Volevo sottrarmi a quella dinamica tossica e in parte ci sono riuscito. Per questo, ora mi risulta difficile immaginare qualcosa che non appaia effimero, che duri più di una manciata di secondi prima di dissolversi.
Se avessi davvero quei soldi, troverei sicuramente come spenderli. Ma la possibilità astratta non esercita su di me alcun fascino — ed è anche per questo che, in definitiva, non gioco mai.
C’è poi un’altra ragione, più profonda: ciò che desidero davvero, in questo preciso momento della mia vita, non si può comprare con il denaro. Forse la fortuna potrebbe intervenire, ma se deve scegliermi, allora che lo faccia per qualcosa che conti davvero e non per sei numeri su una schedina.
In definitiva, la vincita al Superenalotto incarna un potenziale astratto, più che un progetto. Non tanto una vita diversa, ma la sensazione che, da qualche parte, una via d’uscita possa ancora esistere. Ma io non cerco più uscite di quel tipo. Cerco, piuttosto, motivi per restare e ne trovo di buoni anzi ottimi continuamente. E devo ammettere che, ormai, non faccio neanche troppa fatica a trovarli.
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