MinimiTermini

Il blog di Oreste Patrone


Quel che non vale il silenzio

Non tutti sanno che per un breve periodo della mia vita sono stato rappresentato da un’agenzia letteraria. Una realtà emergente, tre ragazzi promettenti e pieni di entusiasmo, con qualche contatto nel mondo editoriale. Uno di loro era riuscito a pubblicare con Einaudi un romanzo, peraltro bellissimo. Insomma, parevano delle promesse.

In quel periodo aspiravo alla pubblicazione del mio primo romanzo, un fantasy di cui oggi ho un giudizio molto critico. Lo inviai all’agenzia per una valutazione e decisero di rappresentarmi. 
Sembrava l’inizio di qualcosa. Non lo fu.

Se lo fosse stato, probabilmente ora esisterebbe un libro e lo sapreste. Più del fallimento e dei rifiuti, fu l’ambiente a deludermi: non riuscivo mai a parlare con loro, non sapevo cosa stessero facendo in mio nome, non capivo in che si traducesse, in concreto, il mandato che gli avevo conferito. Avevano già diversi autori pubblicati, anche se il genere che trattavano era molto distante dal mio e a essere sinceri, mi sembravano tutti molto più bravi di me, dotati di una scrittura matura, di una profondità che allora io non vedevo neanche col binocolo. Ce n’era uno, in particolare, che ancora oggi considero il mio autore preferito in assoluto. Il mio romanzo era un fantasy con del potenziale – questo lo riconosco – ma era acerbo, ingenuo e inoltre avevo la sensazione che ci stessimo muovendo in un campo che, forse, era ancora nuovo anche per loro.

L’agenzia alla fine chiuse i battenti, quando ormai avevo già incassato i miei bei rifiuti e tagliato i ponti con loro.

Fu proprio in quel momento, nel pieno della disillusione, che nacque il commissario Cazzavillani: una macchietta, un collage dissacrante dei polizieschi italiani più stereotipati, costruito scopiazzando deliberatamente i vari commissari letterari per generare un effetto comico. Un racconto natalizio con Cazzavillani ebbe un buon successo, ma non certo nei circuiti dell’editoria tradizionale. Lo pubblicai da indipendente su Amazon, aiutato da un amico che si muoveva da tempo nel mondo dell’autopubblicazione.

Fu allora che mi imbattei in questo universo caotico e contraddittorio, popolato da autori sinceri, capaci, intellettualmente onesti, ma anche da altri disastrosi, convinti che il semplice fatto di scrivere fosse sufficiente a meritarsi dei lettori. Ma la cosa più imbarazzante e insopportabile, era l’idea che l’autopubblicazione rappresentasse una forma di ribellione contro l’editoria tradizionale, colpevole secondo loro non di selezionare, ma di cospirare contro la libertà d’espressione. Si sostenevano a vicenda a colpi di like, di recensioni incrociate e pacche sulle spalle nei gruppi Facebook. Cose brutte, davvero brutte. Alcune le ho fatte anch’io e me ne vergogno ancora. Ricordo in particolare un autore, tra i peggiori che mi sia mai capitato di leggere, convinto di essere una voce originale solo perché costringeva le sue storie dentro forzature esotiche e stravaganze, assurdità buttate lì a casaccio, ignorando che tra l’originalità e il grottesco si spalanca lo stesso abisso in cui ambientava certi suoi racconti. Senza senso, senza grazia. Semplicemente orribile.

A un certo punto mi stufai anche di quel mondo, ma ne uscii con qualche idea più chiara.

Pubblicare in modo indipendente richiede un’enorme responsabilità. Prima di caricare un libro su Amazon, secondo me bisognerebbe fermarsi un momento e chiedersi se ciò che si è scritto merita di essere pubblicato o è solo un modo egoista di aumentare l’entropia letteraria. Ma non chiederselo da soli: chiederlo a qualcuno di onesto, di competente. Non l’amico, non il cugino che commenta tutti i tuoi post su FB dicendo che dovresti pubblicarci un libro: è il primo che non ne leggerebbe neanche una pagina. Qualcuno che sappia dirti, se necessario, che quel testo non funziona. Che fa schifo, anche. 

Pubblicare vuol dire mettere da parte l’orgoglio, accettare l’idea che non tutto può piacere. Esporsi e, soprattutto, essere onesti con se stessi e con i lettori.

Certo, qualcuno difende l’editoria tradizionale come forma di selezione naturale e in parte è vero. Ho visto con i miei occhi opere di grande valore ignorate dalle case editrici. Ho proposto romanzi eccellenti senza mai ricevere una risposta. Ho visto autori validi vendere migliaia di copie ed essere ignorati dal proprio editore. Ho visto scrittori fare tour in tutta Italia con libri bellissimi che alla fine hanno venduto pochissimo.

Non so dire cosa sia giusto, se l’autopubblicazione sia una via migliore dell’editoria tradizionale o solo un’alternativa tra molte, ma oggi, in questo momento della mia vita, so che potrei tornare a pubblicare da solo a patto di farlo con metodo e una buona dose di umiltà. Potrei anche decidere di tornare a bussare alla porta di un editore, ma lo farei senza confondere un rifiuto [o un sì] con una verità definitiva. Perché l’ho imparato, sulla mia pelle e su quella di altri, che il valore di un’opera non sempre coincide con la sua sorte editoriale.

MinimiTermini



Lascia un commento