Si sente dire spesso che l’universo ci parla, che ci invia messaggi attraverso circostanze, incontri, coincidenze. Come se, al di là della superficie visibile delle cose, esistesse un principio di giustizia, un’equazione nascosta che guida gli eventi verso un senso, un equilibrio. Una sorta di intelligenza silenziosa che, in qualche modo, si riflette nelle nostre vite, orientando le nostre scelte, sussurrandoci la direzione da prendere nei momenti d’incertezza.
È una visione affascinante. Pensare che ci sia un rispecchiamento misterioso tra le leggi della fisica e i principi dell’etica, della giustizia, della coscienza. Come se l’ordine cosmico e quello morale fossero due aspetti dello stesso ordine fondamentale.
Ma allora sorge una domanda inevitabile: che cosa intendiamo, davvero, quando parliamo dell’universo?
Se mettiamo per un attimo da parte la visione scientifica – quella fatta di galassie, buchi neri e materia oscura – e pensiamo all’universo in termini metafisici, come a una realtà che trascende il tempo e lo spazio, allora forse ciò di cui parliamo è qualcosa di molto più vicino a noi di quanto immaginiamo. Perché mai un universo, inteso come massa inerte di pianeti e ammassi di gas incandescenti, dovrebbe occuparsi delle nostre decisioni quotidiane? Che interesse avrebbe per la nostra felicità, per i nostri dubbi, per le strade che prendiamo?
Non sarà, piuttosto, che l’universo di cui parliamo tanto non è altro che un riflesso di noi stessi? Forse è dentro di noi e non fuori, che prende forma quel principio di giustizia che cerchiamo. Quel messaggio che l’universo ci invia, altro non è che una voce interiore – una parte profonda di noi che tenta in tutti i modi di farsi ascoltare. Prima sussurra, poi parla, infine grida, proprio come l’anima che anela a liberarsi e dire la verità che porta dentro.
In questo senso, anche alcune forme di astrologia – in particolare quella simbolica, archetipica, che non legge nei pianeti forze causali ma specchi dell’anima – possono diventare strumenti di consapevolezza. I corpi celesti non ci dominano, non ci governano, ma ci rispecchiano. L’universo ci parla nella misura in cui siamo disposti a leggere il suo linguaggio metaforico. Le costellazioni, i transiti, le fasi lunari non ci dicono cosa dobbiamo fare, ci invitano piuttosto ad ascoltare dove siamo, in che punto del nostro viaggio interiore ci troviamo, quale parte di noi chiede attenzione.
Ascoltare l’universo potrebbe significare imparare ad ascoltare noi stessi. Spesso, tuttavia, ci risulta più facile proiettare all’esterno ciò che non riusciamo a riconoscere dentro, per questo guardiamo le stelle e attendiamo segni dal cielo. Per questo, forse, desideriamo tanto l’arrivo di un’intelligenza aliena che ci illumini, ci dica cosa è giusto e riempia il nostro vuoto di senso. Quando forse l’intelligenza che cerchiamo è già presente in noi.
E forse proprio perché attribuiamo a questa intelligenza un’autorità superiore che temiamo, in modo speculare, che possa anche giudicarci, annientarci, cancellarci se non saremo ritenuti all’altezza. È il riflesso di un conflitto profondo: da un lato, il desiderio di essere guidati da un principio assoluto; dall’altro, la paura di non meritarlo, di essere trovati mancanti al cospetto di qualcosa di più Grande. Ma forse questo giudizio, come il messaggio, non viene dall’esterno ma è la voce interiore che ci interroga, che chiede verità, coerenza.
Allora sì, forse siamo canali quantici di un universo interiore vastissimo, un subconscio cosmico che ci attraversa e ci parla – se solo imparassimo ad ascoltarlo.
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