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Il blog di Oreste Patrone


La soluzione rapida fa l’uomo forte

La partecipazione a tanti eventi formativi online mi ha offerto un osservatorio privilegiato sulle esperienze e le motivazioni di chi vive accanto a un cane e cerca, spesso con fatica, di comprenderlo. I momenti di confronto, soprattutto durante le domande, si trasformano spesso in finestre aperte sulle motivazioni degli altri partecipanti. In particolare, quando si tratta di proprietari di cani, emerge quasi sempre il desiderio di comprendere meglio il proprio animale, aiutarlo, costruire con lui un legame più autentico. 

Una cosa che mi colpisce ogni volta sono i racconti di chi ha attraversato percorsi lunghissimi, spesso durati anni. Persone che hanno cambiato più professionisti, talvolta aderendo – contro le proprie stesse resistenze – ad approcci basati su tecniche superate, fondate sulla coercizione, sull’uso del controllo fisico, su una visione gerarchica e punitiva della relazione. Tecniche che promettono risultati rapidi ma che spesso ottengono la sottomissione, non la comprensione.

È doloroso ascoltare le frustrazioni di chi racconta queste storie, sentire la dissonanza interiore tra l’amore per l’animale e l’aver agito, magari in buona fede, contro il suo benessere.

In quei momenti mi chiedo perché, davanti alle difficoltà, ci affidiamo a figure del genere. Perché ci lasciamo convincere

Ci ho pensato a lungo. 
Credo che, anche in questi ambiti, risuoni qualcosa di più profondo e radicato. Una dinamica che non riguarda solo il rapporto con i nostri animali, ma che attraversa la nostra cultura, la nostra storia, la nostra psicologia collettiva. Nei momenti di crisi, quando le coordinate abituali vengono meno, tendiamo a cercare una figura che ci dia l’impressione di sapere esattamente cosa fare. Una guida sicura, determinata, possibilmente inflessibile. Il mito dell’uomo forte.

È un meccanismo antico, che si attiva ogni volta che la complessità ci sovrasta e ci fa sentire inadeguati e incapaci. Succede nella politica, nell’educazione, nei rapporti familiari. Succede anche quando ci troviamo in difficoltà con un cane che non capiamo, che ci disorienta, che non risponde come avevamo immaginato. La paura di sbagliare, di non essere all’altezza, di fare danni ci porta a desiderare una scorciatoia. Una voce che ci dica, senza esitazioni, che si fa così. E se quella voce è autoritaria, se si presenta con l’atteggiamento risoluto di chi non si mette mai in discussione, tanto meglio. Ci sentiamo sollevati, alleggeriti dalla fatica del dubbio. Il dubbio è faticoso. La tenerezza è faticosa. La pazienza è faticosa.

Il problema è che, spesso, il prezzo da pagare per questa illusione di semplicità è alto. Se tra il problema e la soluzione promessa c’è la violenza, ci diciamo che forse vale la pena tollerarla. Per un bene superiore: il benessere del cane.

Ci diciamo che possiamo accettare qualche mese duro se poi potrà vivere anni felici, ma non è così che funziona. Il maltrattamento lascia segni profondi e spesso ce ne si accorge solo quando si arriva altrove, da altri professionisti, che si trovano a dover riparare i danni lasciati da chi è venuto prima – anche di storie così ne ho sentite decine.

Allora il nodo, forse, è nel perché ci rivolgiamo a persone così.
Forse perché ci affascina ancora quella figura solida, decisa, che incarna la sicurezza assoluta, che non ha mai dubbi, che promette di bilanciare forza e cura. Forse perché, in fondo, dentro di noi sopravvive un’idea di educazione – dell’essere umano prima ancora che dell’animale – fondata anche sull’uso “misurato” della forza.

Forse dipende dal fatto che non ci fidiamo davvero della gentilezza. La scambiamo per insicurezza, la trattiamo come se fosse un segno di debolezza. Siamo convinti che educare significhi correggere, contenere, imporre una forma. Ma la verità è che la gentilezza è un atto di ribellione silenziosa, che si sottrae alla logica della forza e proprio per questo mette in discussione l’intero sistema.

Dovremmo imparare a guardare negli occhi la paura di non essere abbastanza, di finire messi da parte o addirittura sopraffatti da coloro che accudiamo. Non per cacciarla, non per negarla, ma per sottrarle il potere di guidare le nostre scelte.

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