MinimiTermini

Il blog di Oreste Patrone


La ricerca della felicità

Domenica mi ero messo a guardare un documentario con mia moglie. Mentre osservavo gli animali nel loro habitat mi sono sorpreso a fare un pensiero ad alta voce: “Guarda quanto sono felici, senza tutto ‘sto baraccone che ci siamo costruiti attorno noialtri per stare bene. E se stessimo meglio, anche noi, liberandoci da queste sovrastrutture?” Frasi banali, da divano. Eppure quella leggerezza ha innescato una riflessione più profonda sui concetti di felicità e infelicità. Mi sono chiesto: gli animali possono davvero sperimentare la felicità come la intendiamo noi?

Per rispondere, mi sono alzato dal divano e sono andato al PC. Ho avviato Google e ho iniziato la ricerca. Sono incappato in diversi studi, pubblicazioni scientifiche, fra cui uno particolarmente interessante pubblicato sulla National Library of Medicine, a cura di autori vari, dal titolo What is animal happiness? L’obiettivo era comprendere meglio cosa sia la felicità nel contesto del crescente interesse umano per il benessere degli animali.

Piccola precisazione, giusto per non lasciare dubbi — anche se l’ho scritto più volte: MinimiTermini non è il bollettino ufficiale della Società Internazionale di Etologia Comparata [che, tra l’altro, non so nemmeno se esista]. Qui non troverete tabelle, curve di regressione o valutazioni comparative ogni due righe. Quello che cerco di fare è semplicemente riflettere ad alta voce, aprire spazi di dialogo e, magari, far nascere qualche domanda in chi legge. Tutto qui. Se qualcuno volesse approfondire scientificamente, sono sicuro che esistono luoghi più consoni e qualificati del Blog di Oreste Patrone. Ciò doverosamente precisato, andiamo avanti.

La prima cosa che emerge dallo studio è la necessità di distinguere tra concetti quali felicità, benessere e appagamento. Il termine “felicità animale”, pur presente in diverse ricerche, non è definito con coerenza: alcuni lo legano a tratti della personalità, altri a emozioni transitorie, altri ancora lo accostano a concetti filosofici.

La felicità, nel pensiero umano, si costruisce su una combinazione di fattori interni ed esterni. Secondo Jeremy Bentham, essa risulterebbe dalla media ponderata tra la percezione della propria vita attuale e l’ideale di come dovrebbe essere. Si tratta, quindi, di un processo cognitivo complesso fatto di confronti, giudizi e aspettative. Ma gli animali possiedono questa capacità di valutazione astratta? 

Secondo lo studio, no; almeno non nei termini in cui la intendiamo noi umani. Tutto questo, naturalmente, non ha niente a che vedere con la capacità degli animali di provare emozioni, di instaurare legami affettivi e persino di percepire le ingiustizie. Qui parliamo solo ed esclusivamente della felicità secondo le categorie concettuali proprie della nostra specie.

Ma se possiamo conoscere la felicità attraverso la nostra capacità di confronto, possiamo anche sperimentare la sua assenza. L’infelicità sarebbe dunque il risultato dello stesso processo, ma con esito negativo: un continuo misurare la vita reale contro uno standard idealizzato. E se questo confronto è costante e impari, ci imprigioniamo in un ciclo di insoddisfazione. La stessa capacità cognitiva che ci permette di elaborare idee astratte, fare confronti tra ciò che viviamo e ciò che desidereremmo, immaginare mondi migliori e scenari futuri — questa meravigliosa facoltà di astrazione dell’intelligenza umana — è anche una delle cause primarie della nostra infelicità. È come se avessimo affinato uno strumento progettato per la sopravvivenza, per anticipare pericoli e progettare strategie, ma lo stessimo usando per misurare costantemente il nostro benessere, creando aspettative sempre più alte e raramente soddisfatte.

Forse stiamo distorcendo una capacità nata per altri scopi: la pianificazione utile che diventa rimuginio, il confronto necessario che si trasforma in frustrazione. La felicità non diventa più uno stato dell’anima, ma un obiettivo in fuga continua, irraggiungibile proprio perché lo stiamo inseguendo con gli strumenti sbagliati.

Ed è forse per questo che, quando ci abbandoniamo a esperienze più semplici — la natura, la connessione diretta con il presente — sentiamo un sollievo profondo. Torniamo a un appagamento che non passa dal pensiero razionale, ma da quella componente affettiva che sarebbe la parte non razionale, non cognitiva della felicità. Camminare nel bosco, senza pensieri, diventa allora non una fuga, ma una forma di ritorno. Un passo verso una felicità primitiva, più vicina a quella degli animali, dove la consapevolezza lascia spazio all’essere.

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