Non è raro, quando si discute di educazione del cane, imbattersi in chi sostiene che certe pratiche debbano essere seguite perché si è sempre fatto così. È un ritornello familiare, non soltanto in questo ambito ma in molti altri della vita quotidiana, che trae origine e sostegno nella cosiddetta saggezza popolare, in proverbi tramandati di generazione in generazione: “mai cambiare la strada vecchia per la nuova”. Questi ritornelli, nati forse per rassicurare di fronte all’incertezza, finiscono spesso per trasformarsi in barriere contro il cambiamento.
In questa resistenza al nuovo non c’è necessariamente malafede, piuttosto un rifiuto tacito di mettere in discussione ciò che si conosce. Isaac Newton, nell’omonima prima legge della meccanica classica, sosteneva che un corpo rimane nello stato in cui si trova finché nessuna forza esterna lo costringe a mutare. Le idee sembrano obbedire allo stesso principio, soggette a una sorta di inerzia culturale che le mantiene ferme al loro posto finché un pensiero esterno abbastanza forte non interviene innescando la trasformazione. La resistenza del si è sempre stato fatto così diventa allora un rifugio, un pretesto che evita di interrogarsi sulle ragioni profonde delle scelte e sulla fondatezza dell’idea nuova.
In un libro che amo moltissimo — Teoria della dissonanza cognitiva, Leon Festinger — si legge che: “Gli individui tendono a cercare la coerenza tra convinzioni e comportamenti. Quando si trovano di fronte a informazioni che contraddicono le proprie credenze, la tensione che ne deriva porta più facilmente a rifiutare il nuovo che a rivedere il vecchio.” Dunque è più facile ignorare un’informazione scomoda, che rivedere un’idea radicata. Così, anche in cinofilia, la consuetudine non è detto che venga difesa per la sua efficacia, ma piuttosto perché ci protegge dalla fatica psicologica del cambiamento.
Il fatto che qualcosa sia sempre stato fatto in un certo modo non significa affatto che fosse giusto. Per decenni si è ritenuto che un ceffone potesse solo far bene ai bambini, che fosse un efficace ausilio pedagogico, che la punizione fosse più efficace del dialogo e che il dialogo fosse poco più che una frivolezza da genitori permissivi [Alice Miller, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza – 1980]. Oggi, fortunatamente, molte di queste idee sono state superate. Non tutte, certo, ma la cultura comune ha riconosciuto che esistono metodi migliori, fondati su una diversa idea di relazione. E allora, perché con i cani continua a essere diverso?
Perché dobbiamo restare ancorati a pratiche vecchie, che ignorano la scienza e l’evidenza di ciò che i cani sono realmente capaci di vivere ed esprimere? Nonostante la letteratura scientifica abbia ormai dimostrato che il cane è in grado di stabilire rapporti complessi, di tipo parentale, con la famiglia umana, si continua a pensarlo come un essere da tenere al guinzaglio non solo fisicamente, ma anche concettualmente. In fondo, il cane è ancora percepito da molti come un accessorio della vita domestica: da coccolare quando ci fa comodo, da ridurre a un bisogno minimo [cibo, passeggiata, cure di base] quando richiederebbe invece molto di più.
Il punto è che ripensare l’educazione del cane significa ripensare il nostro stesso ruolo nei suoi confronti. Significa superare l’idea riduttiva che il cane sia “solo un cane”, ma un essere con emotività, bisogni relazionali e capacità cognitive. Come genitori, molti di noi hanno cercato di crescere i propri figli prendendo le distanze da ciò che nel tempo si è rivelato inefficace o ingiusto. Abbiamo commesso comunque una quantità enorme di errori, che mi auguro possano diventare materiale di statistica per loro, una volta adulti, contribuendo per approssimazioni successive a costruire un approccio sempre migliore. Così mi chiedo, se i cani sono davvero così importanti per noi, perché non dovremmo compiere con loro uno sforzo analogo di aggiornamento, lasciando indietro pratiche che scienza ed etica hanno ormai dichiarato inadeguate?
Pensare il cane come membro reale della famiglia e non come accessorio ci costringe a rivedere i nostri schemi, a prendere sul serio i suoi bisogni, anche quelli più complessi, a non fermarci all’idea che basti dargli da mangiare e portarlo a spasso per assolvere ai nostri doveri, a superare l’idea che il cane sia bravo solo se risponde ai nostri comandi e si adegua ai nostri desideri. Tutto questo si riflette anche nell’educazione: se impariamo a ripensare il cane, molte pratiche consolidate si rivelano improvvisamente superate e ci obbligano a considerare approcci nuovi che mettono alla prova, prima di tutto, noi stessi. La resistenza al cambiamento in cinofilia è paura della responsabilità. Paura di ammettere che il cane non è inferiore, è solo diverso. Non è un oggetto, ma un compagno. E che questo, inevitabilmente, ci chiama in causa molto più di quanto vorremmo.
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