Nel film Little Buddha, per proteggere il giovane principe Siddhārtha dal destino che gli è stato profetizzato dall’astrologo Asita, suo padre Suddhodana decide di rinchiuderlo nel palazzo reale, circondandolo di agi e lussi. Quando lui chiede di uscire, il Re mette in scena una parata in cui il figlio può sfilare felice a bordo di un carro. Ma ai margini della festa, tra le pieghe dell’apparenza, nonostante gli sforzi dei soldati del padre di nasconderlo alla sua vista, il ragazzo scorge un mendicante. Incuriosito, abbandona la parata e lo segue, scoprendo poco dopo diversi uomini malati, nascosti per ordine di suo padre, e infine un vecchio in procinto di essere cremato. Dopo aver assistito al rito funebre della sua vita, Siddhārtha intuisce il legame tra tutte le cose viventi e scopre la compassione.
Ci sono angoli del nostro mondo che sembrano cuciture scucite dalle quali affiora ciò che vorremmo nascondere, come se la realtà non riuscisse a trattenere tutto al di sotto del suo tessuto liscio e perfetto. Il disagio che provo passando accanto a certe situazioni — la fila alla mensa della Caritas, il senzatetto che chiede l’elemosina, una panchina occupata da chi non ha più nulla — secondo me nasce da lì, dalla consapevolezza che anche quello fa parte della natura umana.
Che anche quello, in qualche modo, mi riguarda.
In quelle persone, per quanto diverse da me, si riflette la mia paura che le mie certezze — il letto, il frigo pieno, persino il gesto automatico di girare la chiave nella serratura — possano sparire e possa anch’io un giorno trovarmi lì. È questo riconoscimento, credo, a inquietarmi davvero, più ancora della miseria in sé. Forse perché ci siamo abituati a pensare che il valore della vita coincida con ciò che possediamo, che il benessere sia soprattutto una questione di abbondanza. Forse è questa l’idea che ci ha convinti che il non avere nulla sia qualcosa da cui difenderci con orrore. Così respingiamo quella paura nei margini in cui ci rifiutiamo di guardare. Io per primo. Guardarli significa confrontarsi con la fragilità del nostro equilibrio, con l’idea che la distanza tra noi e loro non sia affatto incolmabile come pensiamo.
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