Tempo fa, rientrando da Trieste, mi sono trovato a riflettere sui compromessi che ogni essere umano accetta nel modellare la propria esistenza.
Vivere in una grande città, per esempio, offre possibilità che altrove sarebbero impensabili: cultura, servizi, incontri, lavoro. Ma ogni conquista urbana ha un prezzo, spesso pagato in tempo, quiete e profondità di relazione. Chi proviene da realtà più piccole lo percepisce con maggiore chiarezza, domandandosi cosa abbia davvero guadagnato e cosa invece lasciato indietro. Allo stesso modo, anche la vita in un contesto più tranquillo comporta delle rinunce e richiede capacità di adattamento. La differenza sta nel metro con cui scegliamo di misurare la qualità della vita: se per noi contano di più certe opportunità, la città prevale; se contano l’equilibrio e il respiro dei ritmi naturali, allora è altrove che si ritrova una diversa forma di ricchezza e appagamento.
Il punto centrale della mia riflessione è la possibilità d’individuare un criterio oggettivo. Le preferenze individuali contano, certo, ma l’essere umano non è un foglio bianco, è comunque il risultato di una storia evolutiva lunga centomila anni. Le sue strutture cerebrali e corporee sono ancora quelle dell’Homo sapiens originario, modellate da un ambiente naturale fatto di foreste, cieli aperti, relazioni tribali, cammino lento, osservazione silenziosa. Il contesto urbano moderno, per quanto funzionale ed efficiente, è una costruzione recente, se paragonata alla storia evolutiva dell’uomo, incompatibile con molte delle nostre necessità etologiche fondamentali: il bisogno di luce naturale, di movimento, di silenzio, di comunità non anonime, di contatto diretto con la terra.
La città, in questo senso, è una forma di adattamento. Una necessità storica, certo, ma anche una compressione della nostra dimensione biologica. Essa, infatti, non è un habitat naturale per l’uomo, ma una costruzione simbolica che risponde a logiche produttive e relazionali complesse, spesso in conflitto con i nostri bisogni primari.
Eppure, non possiamo tornare indietro. Vivere in una capanna nei boschi non è una soluzione praticabile per la stragrande maggioranza di noi, me compreso. La modernità ci impone una rete di interazioni, obblighi, doveri che presuppongono la prossimità ai luoghi dove accadono le cose. I nodi dell’economia, in primis, poi tutto il resto. È un paradosso ineludibile. Più ci allontaniamo dalla nostra natura, più sembriamo efficienti. Ma a quale prezzo, mi chiedo.
Alla fine, credo che ripensare il nostro stile di vita non significhi necessariamente abbandonare le città, ma riconoscerne il limite. Imparare a disinnescare, per quanto possibile, le dinamiche che ci allontanano da noi stessi. Coltivare spazi di autenticità, anche dentro il cemento. Riportare nella nostra quotidianità elementi di contatto con ciò che siamo sempre stati: camminare, toccare la terra, guardare un orizzonte, condividere il tempo senza finalità produttive.
Per quanto mi riguarda, le passeggiate nella natura con Kyra hanno ridefinito la mia percezione del benessere. Mi hanno restituito un senso di presenza e di connessione coi luoghi. Ed è anche per questo che, pur apprezzando le possibilità offerte da una grande città, so che farei fatica a viverci. Le città, forse, sono un male necessario. Ma il male, anche quando è necessario, va riconosciuto e indagato. Se possibile, compensato con una forma di bellezza più vicina alla nostra natura originaria.
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