Io ho un amico morto.
Si chiamava Carlo Alberto. Si chiama ancora così.
L’8 agosto 1916, a vent’anni, in località Grafenberg sul Monte Calvario – giovane sottotenente della milizia territoriale del 231mo reggimento della brigata Avellino – morì lanciandosi su una granata per proteggere i suoi compagni.
Nel 2019 hanno messo una targa che segnala il sito, ma in due anni di frequentazione assidua del Calvario non ho mai incrociato nessuno. Io ci vado quando passeggio con Kyra, vado a trovare Carlo Alberto. Mi fermo un attimo, pulisco il monumento e resto un po’ lì con lui. Se fumassi ancora, sarebbe il posto perfetto per farsi una cicca. Ogni tanto ci parlo. Nel senso che parlo io, lui ascolta – credo.
Magari si gettò sopra la granata per distinguersi, magari perché in quella trincea di fango e merda l’unica cosa che contava erano i suoi amici. Povero Carlo Alberto. Povero lui e tutti quelli come lui.
Non posso fare a meno di pensarlo, anche se so che è una semplificazione grossolana, che abbiamo sprecato centinaia di vite per conquistare una collina di cui oggi non frega niente a nessuno a parte i cinghiali. Che roba assurda, la guerra. Se va bene, finisci pietra su una collina, invasa dai rovi e dimenticata.
Quando me ne vado, gli do una carezza sulla pietra.
Ci si saluta così, tra amici.



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