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Il blog di Oreste Patrone


La possessione demoniaca tra mito e psicologia analitica

di Giuseppe Caserta

«Oggi tutti sappiamo che “abbiamo dei complessi”.
Che i complessi abbiano noi è cosa meno nota».

Carl Gustav Jung

Leggendo ciò che Oreste ha scritto sulla possessione in un suo articolo, non ho potuto non pensare alla frase citata qui in alto: sono pochi i casi in cui ci si interroga in maniera così assidua su quella che è nella migliore delle ipotesi una bizzarria. La possessione demoniaca, fin dagli albori dell’Umanità, è stata per lungo tempo l’esempio più lampante di ciò che l’essere umano percepisce come completamente altro da sé, un’intrusione improvvisa e minacciosa che irrompe nel flusso di coscienza e ne altera il corso. Non era soltanto un fenomeno inspiegabile: era il simbolo stesso della perdita di controllo.

L’idea che una presenza esterna – maligna, intelligente, dotata di intenzionalità – potesse impadronirsi della vita psichica di una persona ha influenzato per secoli non solo le credenze religiose, ma anche il modo quotidiano in cui si interpretavano le sofferenze interiori. Sin dai tempi dello Sciamanesimo – prima forma di religione sviluppata dall’Homo Sapiens – sono esistiti rituali di allontanamento di spiriti maligni, i quali sono stati tramandati e arricchiti quando sono apparse le varie religioni, politeiste e monoteiste. Solo con l’Illuminismo la psichiatria ha iniziato a considerare questi fenomeni da altri punti di vista, biologici o comportamentali, pur tuttavia non riuscendo mai a sottrarre il fenomeno della possessione dallo sfondo religioso o antropologico nel quale si è sviluppata.

Pur non vivendo più in un orizzonte simbolico popolato da diavoli e angeli – la cui scomparsa ha causato le malattie psichiche, come amava ricordare Jung – ciò non ha fatto sì che l’esperienza dell’alterità psichica sia scomparsa. Semplicemente, quella che un tempo si chiamava possessione oggi può essere catalogata sotto etichette come “episodio dissociativo”, “psicosi”, “post traumatico”: il demoniaco sopravvive come metafora, come linguaggio immaginale, come spazio dove depositiamo le parti più difficili di noi. Ma vi sono altre vie: la possessione può essere inserita in un immaginario più spirituale o new age fatto di presenze, energie, entità o altro. L’esigenza di nominare ciò che ci supera non è mai venuta meno; è solo mutato il modo, anche se con un cambiamento fenomenologico che spesso ha radicalmente mutato l’esperienza, a volte impoverendola, a volte guardandola da un punto di vista differente. Non deve stupire che nonostante la secolarizzazione esistano ancora nelle “nuove spiritualità” riferimenti e rituali legati agli influssi nefasti del male o del maligno: le pratiche spirituali cercano infatti di offrire uno spazio protetto per esplorare quelle stesse parti interiori che un tempo venivano attribuite ai demoni. Queste pratiche, pur nella loro eterogeneità, testimoniano un bisogno diffuso: quello di incontrare l’alterità interna senza esserne travolti. Dove la religione tradizionale forniva un apparato simbolico robusto e codificato, oggi spesso ne esiste uno più personalizzatoi, meno condiviso a livello collettivo, ma che tenta – un po’ goffamente a volte, bisogna dirlo – di tappare il buco lasciato dai grandi monoteismi e stendere un mantello di protezione sulla psiche. 

Ma non c’è solo psichiatria o spiritualità “laica”: serie televisive, film horror, podcast sul paranormale, videogiochi che mettono in scena forze oscure: a quanto pare ciò che una volta era pertinenza di sacro o superstizione ha fatto irruzione nel quotidiano e ha trovato terreno fecondo nell’arte e nell’intrattenimento in genere. A prima vista sembrerebbe una operazione commerciale che cavalca l’onda delle paure e dei misteri atavici dell’uomo, ma non è solo questo: vi è infatti anche una sorta di palestra collettiva in cui la psiche sperimenta, a livello simbolico, ciò che nel quotidiano risulterebbe troppo minaccioso per essere affrontato direttamente. 

La psicologia, e in particolar modo la Psicoanalisi, non si è mai interessata a smentire il vissuto di possessione da un punto di vista teologico, né ha mai inteso negarne la potenza simbolica, tuttavia cerca di far riconoscere che ciò che viene percepito come estraneo potrebbe in realtà (anche) avere radici profondamente interne, e che la psiche umana possiede una complessità tale da poter generare esperienze che somigliano, in modo quasi inquietante, a un’invasione. Se molti studiosi, Freud in primis, hanno sempre guardato l’argomento con sospetto, Carl Gustav Jung invece se ne è interessato fin dalla sua tesi di specializzazione in psichiatria, denominata “Psicologia dei fenomeni occulti”, dove il giovane medico osservò le trance di una medium molto popolare nella quale pare si avvicendassero diversi personaggi del passato, che la possedevano e parlavano ai presenti. Jung arrivò a comprendere che tali fenomeni non erano tanto dovuti alla presenza di spiriti o di anime, ma a parti scisse della personalità della medium non in contatto con la Coscienza, che egli definì Complessi.

Nella psicologia analitica di Jung, un Complesso è una specie di subpersonalità non cosciente, che ha vita autonoma all’interno della psiche: esso non è un semplice grappolo di ricordi o emozioni: è un’organizzazione autonoma dell’inconscio, con una sua logica interna, una sua tonalità emotiva, talvolta persino una sorta di intenzionalità psichica. Jung stesso sottolineava come i Complessi “fanno” qualcosa al soggetto: emergono, si impongono, prendono la scena, alterano il senso di identità. Si comportano, in altri termini, come piccoli centri di coscienza indipendenti. Ed è proprio questa loro parziale autonomia che permette di capire perché, in situazioni di fragilità emotiva o di forte stress, il soggetto possa percepire l’attivazione di un complesso come se fosse l’ingresso di una presenza esterna. La frase che ho riportato all’inizio di questa riflessione rende infatti bene il concetto di come anche per i Complessi il contatto con l’Io sia una percezione estranea e con la quale fare i conti.

In contesti religiosi, il passaggio dalla dinamica complessuale all’interpretazione demonologica è quasi naturale. L’esperienza interna, priva di integrazione simbolica e di contatto con la Coscienza, viene letta attraverso il vocabolario della tradizione e dei testi sacri. Un’emozione che esplode all’improvviso, una voce interiore che irrompe, un impulso distruttivo che non riconosciamo come nostro: tutto questo si presta a essere interpretato come “altro”, e quindi come demoniaco.

James Hillman, proseguendo l’intuizione junghiana sull’azione dei Complessi, porta questo discorso ancora più lontano. Per Hillman, la psiche non è un regno che appartiene all’Io, ovvero alla parte cosciente – né uno spazio in cui quest’ultima esercita il suo dominio. È piuttosto un luogo affollato, una sorta di gigantesco condominio, dove molteplici immagini e figure psichiche coesistono, si intrecciano, si scontrano e talvolta chiedono di essere ascoltate con decisione, anche attraverso i sintomi. Se Jung aveva già messo in discussione la sovranità dell’Io, Hillman la relativizza ancor di più: l’Io è solo uno dei tanti personaggi della psiche, e non sempre quello più autorevole.

In questa prospettiva, la possessione non è necessariamente la manifestazione di un’entità esterna, ma l’irruzione improvvisa di una delle molte figure interne che l’Io aveva relegato ai margini, una voce rimasta silente fino al momento in cui trova uno spiraglio per emergere. È un fenomeno “immaginale” prima ancora che clinico: un pezzo di psiche che, sentendosi ignorato, forza il suo ingresso sulla scena del teatro della coscienza.

A supporto delle teorizzazioni psicoanalitiche, possiamo aggiungere anche le osservazioni basate sulle recenti ricerche delle scienze cognitive, che si occupano di osservare l’attività cerebrale tramite tecniche di neuroimaging. In particolar modo, la teoria della dissociazione offre ulteriori strumenti per comprendere cosa accade quando una di quelle “parti non-Io” si palesa e prende il comando dell’individuo. Bromberg, in particolare, ha descritto la mente come un insieme di configurazioni psichiche coerenti, ma parziali, che possiedono ognuna una propria tonalità emotiva, un proprio modo di percepire il mondo e di reagire ad esso. Non viviamo con un solo Io, ma con molti piccoli Io che si alternano, pur avendo la percezione che essi siano sempre “Me” nonostante le loro diversità. La salute psicologica non consiste nel fonderli in un unico blocco monolitico, ma nella capacità di restare presenti mentre si passa dall’uno all’altro. La dissociazione emerge quando questa capacità viene meno: quando uno di questi “Io”, percepito come troppo minaccioso o inconciliabile con l’esperienza cosciente, viene messo fuori scena dalle difese psichiche, esso finisce relegato nella parte non cosciente. In determinate condizioni – spesso a causa di eventi emotivi intensi, traumi o abbassamenti del livello di coscienza dovuti a gravi psicopatologie, sindromi organiche o sostanze – quest’ultimo può tornare prepotentemente alla carica, spesso in maniera brusca, travolgente, e soprattutto estranea. È allora che il soggetto può sentire di essere “preso” da qualcosa che non è lui.

Da qui alla lettura demonologica il passo è breve. La cultura in cui sono immerso fornisce un linguaggio come chiave di lettura, mi da la possibilità di leggere gli eventi tramite un substrato di simboli condivisi, e la psiche si modella su quel linguaggio per dare forma a ciò che accade dentro. Se vivo in un contesto in cui la spiritualità prevede la presenza di spiriti maligni o di demoni, è probabile che un’esperienza dissociativa prenda quella forma; se vivo in un contesto più razionale ( non in senso migliorativo ma semplicemente inteso come cambio di paradigma) parlerò di “parte interna”, di “Complesso inconscio”. La fenomenologia è reale ed autenticamente esperita dal soggetto, ma la sua interpretazione è culturale: ciò non vuol dire affatto che non possano esistere sul piano di realtà esseri maligni o presenze infestanti, ma la psicologia non ha gli strumenti per affrontare questo discorso. Quello di cui parlo è essenzialmente l’esperienza esistenziale dell’individuo, al di là della “verità oggettiva”. Bisogna tuttavia stare attenti a non confondere i livelli, e ad approfondire con cura gli aspetti psichiatrici prima di rivolgersi al soprannaturale, altrimenti le conseguenze potrebbero essere serissime: il caso di cui vi parlerò ora è emblematico in tal senso.

Anneliese Michel, nata in Germania nel 1952 in una famiglia cattolica molto devota, iniziò nel 1968 a manifestare convulsioni, paralisi temporanee degli arti e difficoltà nel linguaggio. I medici diagnosticarono una forma grave e farmacoresistente di epilessia del lobo temporale, associata a sintomi depressivi. Poiché le terapie non producevano miglioramenti significativi, i genitori interpretarono il quadro come segno di un influsso sovrannaturale e richiesero un esorcismo.

Durante i rituali, protrattisi per mesi, Anneliese sviluppò allucinazioni uditive e visive, riferendo la presenza di demoni; parlava con voci e timbri innaturali, utilizzava lingue diverse e rifiutava il cibo sostenendo che i demoni glielo impedissero. Gli esorcisti dichiararono che in lei risiedessero almeno sei entità maligne, tra cui Caino e Hitler. Nel corso delle sedute la giovane venne sottoposta a pratiche estenuanti: preghiere incessanti, penitenze corporali e rituali coercitivi. Secondo i resoconti degli stessi esorcismi, Anneliese affermava di stare espiando i peccati dell’umanità per mandato di Cristo e della Vergine. A 24 anni, debilitata da grave malnutrizione, estenuazione fisica e ripetute percosse, Anneliese morì.

Un’indagine più attenta sulla vita di Anneliese Michel avrebbe rivelato vari elementi cruciali. La sua famiglia era fortemente legata al cattolicesimo tradizionalista, e Anneliese aveva vissuto un trauma infantile legato alla nascita di una sorella illegittima quando aveva otto anni. Inoltre assumeva farmaci per depressione ed epilessia che potevano produrre effetti collaterali come allucinazioni. Le lingue che sembrava parlare durante gli esorcismi – latino, greco, ebraico, aramaico – le conosceva in realtà grazie ai suoi studi biblici.

Già prima degli esorcismi Anneliese manifestava tendenze ascetiche e punitive, convinta di dover espiare colpe, infliggendosi privazioni come dormire sul pavimento. Dopo la sua morte fu aperta un’inchiesta: l’autopsia rivelò denutrizione grave (pesava circa 30 kg), polmonite e lesioni multiple, tra cui le ginocchia fratturate per le continue genuflessioni. I medici affermarono che un ricovero tempestivo avrebbe con tutta probabilità salvato la sua vita.

Il caso di Anneliese Michel resta emblematico proprio perché rappresenta il gravissimo pericolo che si corre quando non si valuta accuratamente una situazione del genere: una giovane donna con una struttura psichica fragile, immersa in un contesto familiare e religioso altamente suggestivo, che manifesta comportamenti chiaramente dissociativi e viene interpretata, da tutti gli attori coinvolti, secondo la lente esclusiva della possessione, ignorando o addirittura negando le affermazioni dei medici. Naturalmente, questo non vuol essere un attacco a una specifica confessione o a una serie di credenze, ma un invito a non precipitarsi frettolosamente alle conclusioni sul fenomeno possessione prima di aver esaminato accuratamente i dati.

Una lettura integrata permette allora di restituire dignità alla complessità del fenomeno. Dire che la possessione non è necessariamente opera di un agente esterno non significa negare la potenza dell’esperienza soggettiva: significa riconoscere che la psiche ha la capacità di generare, nella sua profondità, fenomeni che assumono la forma del demoniaco pur restando interni. Complessi autonomi, stati del Sé dissociati, immagini psichiche potenti, pressioni culturali: sono tutti elementi che cooperano nel costruire ciò che poi viene sperimentato come intrusione. Ciò non invalida tout court l’eventuale presenza di forze maligne o demoniache, ma aiuta a contestualizzarle. Mi piace chiudere queste riflessioni con un riferimento non a uno psicoanalista, ma ad uno dei più grandi teologi protestanti del XX secolo, ovvero Karl Barth, padre della teologia dialettica. Parlando dell’esistenza del demonio, ed affermando che egli abita lo spazio vuoto tra l’uomo e Dio, egli afferma che non si deve compiere l’errore di non credervi, ma che bisogna piuttosto disconfermarlo, ovvero non credere alla sua potenza, in quanto inferiore a quella di Dio. Questo penso vada generalizzato a qualsiasi episodio di “possessione” – psichico o meno – poiché in qualsiasi circostanza dobbiamo ricordarci che noi non siamo i nostri pensieri, ma che questi ultimi appartengono a una complessità e, pur essendo parte di noi, non ci rappresentano mai completamente.

dott. Giuseppe Caserta, psicanalista
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3 risposte a “La possessione demoniaca tra mito e psicologia analitica”

  1. Avatar gloriouspanda912a150a0e
    gloriouspanda912a150a0e

    ottima sintesi tra jung hillman barth. Aggiungerei lettura sotto prospettiva foucaultiana e jasperiana …. che poi recuperano anche approdi filosofici antichi e recenti. Grazie dello stimolo.

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  2. Avatar gloriouspanda912a150a0e
    gloriouspanda912a150a0e

    ottima sintesi tra jung hillman barth. Aggiungerei lettura sotto prospettiva foucaultiana e jasperiana …. che poi recuperano anche approdi filosofici antichi e recenti. Grazie dello stimolo.

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    1. Grazie a te per il commento, che rivela una lettura attenta e partecipata, indice di un desiderio di alimentare il dibattito che va oltre il mero like di passaggio.

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