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Il blog di Oreste Patrone


Il nostro Inno

Sono nato nel 1976, il 31 gennaio. 
Questo c’è scritto, sulla mia carta d’identità. 
Quello che non c’è scritto è quando sono venuto al mondo. 

Non è la stessa cosa: la prima è un fatto anagrafico, la seconda ha a che fare col riconoscimento di sé. Io sono venuto al mondo sedici anni dopo, nel 1992. Il 5 maggio, gli House of Pain pubblicarono Jump Around. Era molto più di un semplice singolo d’esordio. Quel pezzo irruppe sulla scena hip-hop con una forza devastante, spazzando via tutto quello che c’era stato prima: le lotte, le rivendicazioni, la rabbia politica, le cronache di quartiere.

Fu anche il momento in cui molti di noi capirono che il rap non era materia esclusiva di chi l’aveva inventato, che si poteva entrare in quel mondo senza imitare nessuno, ma soprattutto senza sembrare ridicoli. Una sorta di rap bianco esisteva già, ma oscillava tra caricature involontarie e tentativi irrisolti di riprodurre linguaggi e stili nati altrove. Con gli House of Pain, finalmente, vedevamo dei ragazzi che non imitavano nessuno, che non prendevano in prestito accenti e slang, che non fingevano un’origine che non era la loro. Erano autentici. E quella autenticità diede al rap bianco nuova dignità, riconosciuta anche dalla scena che fino a quel momento l’aveva guardato con sufficienza — anche giustamente, aggiungo.

Ascoltando quella canzone anche uno come me, che aveva passato più tempo a cercarsi che a trovarsi, chiedendosi se esistesse un posto in cui sentirsi riconosciuto, per tre minuti e ventisei secondi si sentiva finalmente parte di qualcosa. E ancora oggi, a trent’anni di distanza, quando parte l’intro sento tornare quella sensazione.

Jump Around è un pezzo che crea appartenenza, ora come allora. Se volete capire cosa intendo, guardatevi la performance dei Cypress Hill all’Hellfest 2025.  Prima di partire con l’intro, B-Real la presenta come “the most powerful hip hop song in the world”. E non è un’esagerazione da palco, è una constatazione. Appena parte la tromba, la folla non reagisce, esplode. Un movimento unico. Sessantamila persone che scattano insieme. Più che un salto, una detonazione collettiva. È allora che capisci che Jump Around non appartiene più solo agli House of Pain, né ai ragazzi degli anni ’90 come me. È patrimonio dell’Umanità, anche di quella parte più sfortunata che non salta a ritmo dell’hip-hop più bello di tutti i tempi.

Jump around!



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