con il dott. Giuseppe Caserta, psicanalista
C’è una scena, in Training Day, che merita particolare attenzione perché mette in luce, più di ogni altra, la psicologia del personaggio di Alonzo Harris. Si tratta della scena in cui Alonzo e Jake discutono in macchina di quello che è avvenuto nella casa di Roger poco prima.
Richiamiamo velocemente i fatti.
Roger è uno spacciatore, uno dei più grossi di Los Angeles. Alonzo intrattiene con lui un rapporto opportunistico di cui Jake, ingenuamente, fraintende la natura credendoli amici. Alonzo sa che Roger nasconde, in una buca sotto il pavimento della cucina, una cassa di legno contenente circa tre milioni di dollari.
Alonzo deve un milione di dollari come risarcimento a dei mafiosi russi ai quali ha fatto uno sgarbo e pensa bene di recuperarli rubandoli a Roger. Inscena con la sua squadra un’azione di polizia diretta all’arresto dello spacciatore e al sequestro del denaro nascosto in cucina, frutto dell’attività illecita, opportunamente alleggerito del milione di cui ha bisogno per salvarsi dalla ritorsione dei russi e della quota spettante ai suoi ragazzi, corrotti come lui, come ricompensa. Per fare le cose bene e liberarsi di un testimone scomodo, decide che il finale di quella messinscena deve essere la morte di Roger, così fa in modo che quest’ultima appaia come la conseguenza indesiderata ma inevitabile dell’azione di polizia.
Sarebbe tutto perfetto se Jake dapprima non si rifiutasse di prendere i soldi della ricompensa, mettendo tutti a disagio con la propria integrità, e poi di ammazzare Roger. Ci penserò Alonzo a farlo fuori ma il problema, agli occhi di tutti, rimane poiché è evidente che Jake non condivide il comportamento dei suoi colleghi.
In breve, la zona viene circondata dalla polizia.
Alonzo e i suoi si separano. Lui e Jake fanno ritorno alla macchina.
Siamo dunque tornati alla nostra Montecarlo del ‘78, dove Jake è sconvolto per quello che ha visto. Alonzo tenta nuovamente di corromperlo, convincendo a prendere la sua parte del denaro rubato, nonostante un attimo prima gli abbia detto che considera la sua integrità una qualità preziosa, cerca di dissuaderlo da qualunque cosa gli stia passando per la testa che possa creargli problemi, di manipolarlo dicendogli che lui possiede qualità che lo rendono diversi dagli altri ragazzi della squadra, che questo fa di lui un predestinato che un giorno potrà prendere il suo posto. Solo allora, quando avrà capito le regole del gioco, potrà tentare di cambiarle dall’interno, poiché solo dall’interno può sperare di cambiare qualcosa. Ma deve avere pazienza, darsi tempo.
Ho chiesto al mio amico Peppe, che di mestiere fa lo psicologo, di analizzare questa scena per noi e di darci la sua opinione in merito.
Allora, Peppe, che puoi dirci di Alonzo?
Ciao Oreste,
la prima cosa che mi viene in mente pensando ai tentativi di Alonzo di corrompere e manipolare Jake è quella di essere di fronte ad un individuo profondamente disturbato.
Spesso siamo abituati (malamente) a pensare il disagio psichico solo in termini di follia o di disordine, e fatichiamo a scalzare dalla nostra mente l’immagine del classico “pazzo” – ormai più una macchietta da sketch comici che una situazione reale – per comprendere che in effetti ci possono essere anche moltissimi casi dove la sofferenza psichica è intrecciata a stretto giro con la cosiddetta “normalità”. Ma cosa è la normalità se non (nomen omen) la maggioranza statistica di qualcosa? Una volta Carl Gustav Jung, rispondendo ad un affranto James Joyce che chiedeva notizie sulle condizioni di sua figlia in cura da lui per una grave psicosi, disse: “Sua figlia affoga nello stesso mare dove lei nuota”. Ed è proprio qui che inizia il discorso su Alonzo: egli usa questa “normalità” per coprire un atteggiamento profondamente manipolatorio, che è indice di un disturbo di personalità che in psichiatria viene chiamato Psicopatia o Disturbo Antisociale di Personalità.
Intendiamoci, lo psicopatico non è necessariamente quello che, fucile alla mano, fa una strage insensata in un luogo pubblico. Si tratta di casi rari – e purtroppo gravissimi – ma che spesso rappresentano la punta di un iceberg rispetto a quello che è il modello classico di questa struttura patologica di personalità, ovvero il freddo, metodico, calcolatore, manipolatore e falsamente empatico che a un primo sguardo potrebbe sembrare adattato, persino premuroso e socievole, ma che in realtà adotta atteggiamenti prosociali soltanto perché è il modo più conveniente di interagire con la realtà.
Alonzo, nel suo bel discorso a Jake e nella sua falsa premura, non vuole cercare di salvare la vita al nuovo collega che ha visto troppo, non prova nessun dolore a dover essere costretto a sparargli per non compromettere lui e i suoi, né teme il senso di colpa per sentirsi in dovere di uccidere un giovane collega che ha il solo difetto di essere integerrimo. Semplicemente, quella è la via meno faticosa e compromettente: meno complicazioni, meno spiegazioni da dare in centrale a fine turno, meno buche da scavare e vestiti sporchi di terra. Alonzo non ha una morale e i suoi discorsi durante tutto il film sono solo frutto di una “empatia cognitiva”, ovvero di un atteggiamento freddo e razionale, molto machiavellico, che punta non alla relazione e all’emotività, ma al massimo risultato utile con i mezzi a disposizione, esattamente come Skynet, la crudele A.I. deviata del film Terminator, che per risolvere i problemi del mondo decide in un attimo che la soluzione più razionale e conveniente è lo sterminio della razza umana, scatenando una guerra nucleare globale.
Quindi, in definitiva, Alonzo non vuol far altro che portare acqua al suo mulino, e per lui il comportamento di Jake è altrettanto incomprensibile di quanto a noi sembri il suo; come si fa a rinunciare a un milione di dollari, tra l’altro frutto del lavoro di uno spacciatore, uno che non mancherà a nessuno, solo per “etica”? Ma è proprio qui il punto: Alonzo, al contrario di Jake, non ha una morale, è soltanto moralista. Il moralismo è una morale che ha perso l’Eros, la vitalità, e che è diventata solo un complesso sistema di leve e pesi. Nessuna meraviglia che poi si accanisca così tanto col collega, non potendo immedesimarsi neanche per un secondo con il suo sdegno per quanto accaduto.
Permettimi tuttavia di terminare questa breve riflessione con un altro spunto di riflessione: stavolta chiederei a te e ai lettori di abbandonare per un secondo la prospettiva del film, ovvero quella che identifica Alonzo e Jake come due persone distinte, e di provare a far finta di essere in un sogno, o in una novella di Pirandello dove entrambi i protagonisti sono due aspetti estremizzati della stessa persona. Abbiamo allora Jake, l’uomo morale, la parte di noi adattata alla società, ligia alle regole, motivata e volenterosa, e poi c’è Alonzo, la nostra parte più nascosta, inconscia, la nostra Ombra.
Jung definisce l’Ombra come la nostra parte che ci rifiutiamo di ascoltare, di riconoscere in noi stessi, al punto che essa viene tagliata fuori dalla Coscienza e relegata negli angoli bui della psiche: se lasciata a sé stessa, fa danni, perché il suo tema interno è l’assassino o il suicida, ovvero la nostra tendenza inconscia a danneggiare gli altri e noi stessi, ma se affrontata permette una evoluzione dell’intera personalità e una crescita esistenziale. Moltissimi sono gli esempi che si potrebbero fare a riguardo, ma a me viene sempre in mente una scena del film Conan, dove il famoso barbaro protagonista passa la vita a irrobustirsi e ad affinare l’arte del combattimento per uccidere Tulsa Doom, lo stregone che gli ha ucciso la famiglia quando lui era solo un bambino. Arrivati alla resa dei conti, Doom – classico villain dei film degli anni ’80 – dice al protagonista che gli rinfaccia gli omicidi da lui compiuti: “Se hai un corpo possente e sentimenti nel cuore, io te l’ho permesso!”.
Non si può non convenire, in effetti. Tulsa Doom con i suoi omicidi ha forgiato l’anima e il corpo di Conan, facendone l’eroe che conosciamo, così come – e torniamo a Training Day – Alonzo in qualche modo “fa nascere” Jake, attraverso la loro infinita lotta di un giorno. Jake ne esce più maturo, forse anche più disilluso, ma di sicuro non più un novellino. Sa che il marcio esiste ed esisterà sempre, anche tra chi fa voto di combatterlo, ma la sua fede nella giustizia ne esce rafforzata, sebbene debba ricorrere paradossalmente a mezzi poco ortodossi per fermare un Alonzo fuori controllo.
Ecco, il dialogo con l’Ombra è questo: è Jake che non accetta di diventare Alonzo, ma diventa comunque un nuovo Jake, con un pizzico di “Alonzità” ma al servizio del bene, o per lo meno di quello che lui pensa sia il bene.
Oreste
&Giuseppe


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