Ieri, ho pubblicato su Facebook un post in cui ho descritto, in un confronto tra passato e presente, il mio rapporto con uno dei luoghi preferiti della mia infanzia: il laghetto di Farra d’Isonzo. Ho accennato anche a due storie che sono state per anni al centro delle mie fantasie.
La prima si riferisce all’annegamento di un ragazzino che sarebbe avvenuto, tanti anni fa, nello spazio tra la sponda sinistra e l’isolotto presente al centro del lago. Non ho mai capito se fosse vero, anche se ricordo una lapide con dei fiori, nei pressi della sponda, che potrebbe essere tuttavia un ricordo ricostruito. Quando ci sono stato recentemente non ho pensato di andare a controllare. Comunque sia, noi bambini eravamo talmente convinti che fosse verità che la massima prova di coraggio, ai tempi, era affrontare a nuoto quei pochi metri d’acqua per arrivare dall’altra parte.
L’altro mistero del lago riguardava il mostro: un pesce gigantesco, descritto come un incrocio tra un luccio e un siluro – la descrizione del suo aspetto cambiava a seconda del narratore. Qualcuno dei ragazzi più grandi sosteneva di averlo visto e pareva fosse responsabile addirittura di alcune aggressioni ai danni dei bagnanti. Quest’ultimo dettaglio, tuttavia, non posso dire se facesse parte della versione canonica o fosse un’aggiunta della mia immaginazione, molto fervida già all’epoca.
Tra il mostro e la storia del bambino annegato, c’erano elementi sufficienti per stendere sui miei ricordi di quel luogo una patina horror nostalgica simile a quella di certi racconti di Stephen King.
Nei commenti al post, un mio amico d’infanzia ha messo in dubbio le basi di entrambe le storie, con argomenti razionali che condivido. Nel punto in cui sarebbe annegato il ragazzino, l’acqua è alta sì e no un metro e mezzo ed è improbabile, secondo lui, che potessero generarsi correnti pericolose tali da farci annegare qualcuno a meno di un malore. Mentre, per quanto riguarda il mostro, la superficie limitata e chiusa non poteva portare i nutrimenti necessari alla sopravvivenza di un simile predatore a meno che non si nutrisse di bagnanti. Sarebbero dicerie, insomma, leggende di paese esagerate dai grandi e dalla nostra fantasia di bambini.
Io credo che, in cuor nostro, noi sapessimo che quelle storie non erano vere, ma che ne avessimo bisogno, perché rappresentavano quella componente di mistero indispensabile nella vita di ogni bambino, che accende e stimola il desiderio di scoperta, di esplorazione e, in definitiva, di crescita personale. Perché il mistero del lago, quel mostro che nessuno aveva mai visto e che per assurdo appariva ancora più vero proprio per quello, è una metafora del mistero interiore del bambino che guarda al mondo e all’adulto che sarà con un misto di paura, aspettativa e curiosità: ingredienti comuni a ogni percorso di scoperta. Come pure lo sfortunato ragazzino annegato, reale o meno che fosse, era funzionale alla narrazione adolescenziale, assumendo la funzione di monito sui nostri comportamenti pericolosi; mentre la paura della morte veniva sublimata nel rito di passaggio dell’attraversamento a nuoto.
In questa prospettiva, mi appare tutto più sensato anche se meno affascinante. Forse perché anche negli adulti sopravvive una parte di quel desiderio di mistero, di scoperta di sé e del mondo, che caratterizza i bambini. O forse perché il rifiuto di mettere a tacere il mio bambino interiore esprime il bisogno di riconciliarmi con certe cose e di guarire da certe ferite legate al mio passato. Quello che è certo è che rivedere il laghetto dopo tanti anni ha risvegliato in me alcune domande e mi piacerebbe andare a fondo nella ricerca delle risposte. Potrei iniziare nuotando fino all’isolotto, compiendo ora quel rito di passaggio che all’epoca rifiutai. La verità – o almeno una parte – potrebbe trovarsi lì.
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