Avevo ventidue anni, quando vidi per la prima volta American History X. In quel periodo attraversavo una fase di crisi; ero costantemente arrabbiato, con me stesso e col mondo intero. Per anni, mi ero convinto di essere una certa persona, con una visione chiara del mio futuro; poi, improvvisamente, quella persona e quel futuro erano andati in pezzi. I motivi di quella crisi non sono rilevanti qui, basti dire che mi sentivo alla deriva. Cercavo qualcosa che mi desse una rotta, che mi permettesse di capire chi fossi. Cercavo un’identità, sfogliando le proposte che il mondo mi offriva come un catalogo di possibilità per definirmi e suggerirmi chi potevo essere. Fu forse per questo che provai un’intensa fascinazione per Derek Vinyard, il protagonista del film, magistralmente interpretato da Edward Norton. Derek incarnava una sicurezza assoluta, una determinazione e una visione del mondo feroce dove prevale il più forte.
Ciò che rende American History X davvero indimenticabile, tuttavia, non è la forza di Derek, ma la sua trasformazione. Nonostante non sia un capolavoro, il film mi turbò non tanto per la violenza esplicita, quanto per quella insita nelle convinzioni di Derek e nel mondo che il film racconta, e mi spinse a riflettere sulla pericolosità delle ideologie che promettono risposte semplici a domande complesse.
La trasformazione di Derek inizia in carcere, dove finisce dopo essersi macchiato del brutale omicidio di due ragazzi di colore sorpresi a tentare di rubargli l’auto. Accecato dall’odio, ne uccide uno a colpi di pistola e riserva all’altro una morte ancora più crudele, sotto gli occhi impotenti del fratello minore. In carcere è costretto a confrontarsi con Lamont, un ragazzo di colore con cui lavora nella lavanderia. Lamont non è il nemico che Derek si era aspettato; non è l’odio che la sua ideologia gli aveva insegnato a vedere negli altri. Lamont è una persona intelligente, piena di umanità e di ironia, che oppone al mutismo e all’ostilità iniziale di Derek il sorrisetto di chi ha già capito chi ha realmente di fronte ed è disposto, nonostante tutto, a dargli una possibilità.

In un ambiente dove tutto sembra essere diviso per appartenenza razziale, quel legame inaspettato incrina le certezze di Derek, ma la vera svolta avviene quando viene aggredito e stuprato da coloro che considerava suoi alleati. Quel tradimento rappresenta il suo punto di rottura, la spinta che lo costringe a guardarsi dentro e segna la fine della sua illusione di potere e controllo. La sua forza, costruita sull’odio e sull’intolleranza, si rivela una fragilità, una costruzione artificiale che crolla sotto il peso delle sue stesse contraddizioni.
È proprio in questo momento che Derek crolla davanti al professor Sweeney, l’unico adulto che gli abbia mai veramente offerto una guida. In quella scena, Derek non è più un leader carismatico e feroce, ma un ragazzo vulnerabile che implora di essere salvato. Sweeney rappresenta, per Derek, l’ultima possibilità di intraprendere un percorso di redenzione che vada oltre le semplificazioni ideologiche e le categorizzazioni rigide. Con pazienza, razionalità e comprensione, Sweeney cerca di mostrare a Derek che il vero cammino di crescita si trova al di là dell’odio.
American History X non è solo un film che mi ha turbato, è un film che mi ha cambiato. Mi ha costretto a riflettere su quanto sia facile essere sedotti da ideologie che offrono risposte immediate e rassicuranti a chi si sente smarrito.
In quel periodo di vulnerabilità, mi resi conto che molti giovani attraversano una fase simile nel loro cammino verso l’età adulta. Spesso ci si sente smarriti, incapaci di orientarsi in un mondo che sembra non offrire risposte adeguate. Erik Erikson [1902-1994], psicologo tedesco, ha dedicato più di un libro al tema della formazione dell’identità durante l’adolescenza. In Identità e crisi, in particolare, scrisse che le persone che non riescono a risolvere il conflitto tra la loro identità personale e quella sociale, sono più vulnerabili a ideologie che forniscono un senso di appartenenza e sicurezza.
Il neonazismo, così come altre ideologie estremiste, offre un pacchetto identitario completo, gratuito e facilmente assimilabile, facendo sentire chi lo abbraccia parte di qualcosa di più grande e potente. La visione che propongono assume spesso tratti quasi teleologici, come se chi aderisce fosse finalmente destinato a riappropriarsi di un posto in una storia che lo ha ingiustamente escluso. Come osserva Olivier Roy in Generazione Isis, in alcuni contesti la radicalizzazione può diventare una forma estrema di contestazione sociale, una risposta al vuoto di significato che caratterizza la vita di molti giovani. La radicalizzazione non nasce solo dall’odio, ma da una profonda sensazione di vuoto esistenziale. Secondo Farhad Khosrokhavar, sociologo iraniano, è il risultato di una combinazione di esperienze personali di marginalizzazione, influenze sociali e ideologie che offrono un senso di appartenenza e scopo.
La promessa di appartenenza è allettante, soprattutto per chi fatica a trovare accettazione sociale. I gruppi estremisti sono abili nel reclutare giovani in cerca di approvazione, costruendo un senso di comunità che risponde alle loro necessità emotive. Per alcuni, aderire a tali ideologie rappresenta un atto di ribellione contro l’autorità, i genitori, la società. È un modo per affermare la propria indipendenza, per distinguersi dal conformismo percepito. Internet e i social media contribuiscono enormemente a questo fenomeno, diffondendo messaggi di forza, potere e ribellione che sembrano offrire un’illusione di superiorità e controllo.

Derek paga un prezzo altissimo per il suo percorso. La morte del fratello Danny, cresciuto all’ombra del suo mito e avvelenato della stessa ideologia, rappresenta l’epilogo tragico e devastante del ciclo di odio che Derek aveva alimentato. Sebbene non sia direttamente colpevole della sua morte, Derek ne è responsabile. Danny è la vittima finale della sua stessa violenza. La sua morte è la tragica conferma che le azioni hanno sempre delle conseguenze.
Lasciarsi sedurre da risposte semplici e immediate è facile, così come aderire a ideologie che promettono un senso di appartenenza senza richiedere alcun tipo di dubbio. Ma la vera forza sta nella capacità di mettersi in discussione, di aprirsi a una comprensione più profonda di sé e degli altri, per sfuggire alla trappola dell’odio e della polarizzazione. Solo quando siamo disposti a guardare dentro noi stessi e ad affrontare le contraddizioni della nostra identità, possiamo intraprendere davvero un cammino di cambiamento, che magari non ci offre certezze ma ci consente di vivere una vita più autentica e consapevole. Questa, alla fine, è la lezione di Derek e di American History X: un insegnamento che mi ha costretto a guardarmi dentro, a mettere in discussione le mie certezze e a ricostruire la mia identità su basi più solide, più autentiche e, soprattutto, migliori.
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