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Il blog di Oreste Patrone


Il mio 25 aprile [in ritardo]

In occasione dell’ultimo 25 aprile, i social si sono riempiti, come ogni anno, di dichiarazioni antifasciste e di polemiche. C’è stato anche chi ha contestato il senso stesso di dichiararsi antifascisti nel 2025, sostenendo che il fascismo sia ormai un capitolo chiuso della storia. Tra le tante voci sull’argomento, mi ha colpito un articolo – di cui purtroppo non ricordo l’autore – nel quale si sosteneva che fare certe dichiarazioni oggi è un modo comodo per salire sulle spalle di chi ha davvero combattuto e sofferto il fascismo. Una forma di autoassoluzione morale collettiva. Un antifascismo senza rischi, dunque privo di valore. Quanti – si chiedeva l’autore  – tra coloro che oggi si professano antifascisti, lo farebbero davvero se ci fosse un regime come quello di Mussolini?

Credo che porsi questa domanda sia utile, ma anche fuorviante.
Dichiararsi antifascisti oggi significa schierarsi contro chi cancella la storia, contro chi governa diffondendo paura, contro chi confonde il patriottismo con la repressione. Significa opporsi attivamente a una cultura politica che considera il dissenso un fastidio, la complessità una debolezza, la solidarietà un crimine.

È finito il fascismo storico, ma non è finito il bisogno del potere di avere un nemico da condannare e da punire, un soggetto debole qualsiasi da usare come capro espiatorio. Non è finita la nostalgia di un ordine fondato sull’obbedienza, sull’identità chiusa, sulla violenza legittima.

C’è chi dice che oggi è facile dirsi antifascisti, perché non ci sono più i rischi di una volta. È vero. Ma proprio per questo il silenzio è ancora più grave. Non ci viene chiesto di salire in montagna o di vivere in clandestinità. Ci viene chiesto di non girare la faccia dall’altra parte. Di non confondere la pace con l’ordine. Di non pensare che tutto ciò che accade non ci riguardi.

Per me, oggi, dirsi antifascisti significa prendere posizione. Non perché voglia sembrare migliore di come sono. Mi conosco, so quali sono le mie debolezze e i miei compromessi. Voglio solo che si sappia che, nel mio sforzo quotidiano di essere una persona decente – una persona che, per quanto imperfetta, cerca di fare la cosa giusta – oriento i miei passi in una direzione precisa.
L’altra.

Voglio che chi mi conosce sappia che con un certo tipo di pensiero – assolutista, discriminatorio e razzista – non voglio avere nulla a che fare. Se per esprimere questo rifiuto serve una parola forte e identitaria come “antifascismo”, allora la uso, anche se semplifica, anche se rischia di banalizzare.

E credo che sia ancora più urgente farlo in un Paese dove il rischio per la democrazia non è solo un’astrazione. Certo, la Costituzione e le leggi ci sono, ma non è questo a preoccuparmi. È il clima, il terreno culturale che si sta inaridendo, desertificando. Quando sento che in un Comune una maggioranza vince le elezioni con oltre il settanta per cento delle preferenze, provo una certa inquietudine. Non è una questione di colore politico – mi preoccuperei allo stesso modo a parti invertite. Provo inquietudine perché la democrazia è confronto, è pluralismo, è contraddittorio. Una società dove quasi otto persone su dieci votano nello stesso modo è una società che, forse, ha smesso di farsi domande. E una società che smette di farsi domande è fragile. 

L’antifascismo non è un’etichetta: è una pratica. Non è una parola da celebrare una volta l’anno: è un criterio per giudicare il presente. E il presente, a guardarlo bene, ha bisogno urgente di essere giudicato.

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