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Il blog di Oreste Patrone


La misura sbagliata del bene

C’è un po’ questa cosa, questa convinzione di molti, secondo cui chi sceglie di convivere con un animale sarebbe moralmente superiore. Come se prendersi cura di un altro essere vivente fosse la misura del valore etico di una persona. Al contrario, chi rifiuta questa convivenza viene talvolta guardato con sospetto o disapprovazione, come se quel rifiuto fosse un segno di egoismo e dunque, in quanto tale, deprecabile. 

Un meccanismo simile si osserva quando una donna dichiara di non volere figli. Quel rifiuto viene percepito come una mancanza, come la negazione di un dovere naturale. Ma chiedo da dove nasca l’idea che l’impegno verso un altro — sia esso un figlio, un cane o un genitore anziano — debba essere universale e incondizionato. Perché si continui ad associare il sacrificio alla superiorità morale.

Personalmente, non condivido questa visione. Non credo che tutti debbano per forza assumersi certi impegni, né che farlo renda automaticamente migliori. Credo, piuttosto, che chi si sente pronto a prendersi cura di un altro, possa trarne un’esperienza profonda, trasformativa. È ciò che è successo a me, ma questo non significa che sia la strada giusta per tutti.

Esistono persone che non hanno né l’attitudine né il desiderio di occuparsi di un altro essere vivente. E va bene così. Forzare qualcuno ad assumersi una responsabilità che non sente — solo perché socialmente attesa — può portare a conseguenze peggiori, per tutti. Vale per i figli come per gli animali.

Ho incontrato molte persone che, pur avendo accolto un cane nella loro vita, lo trattano male, anche solo attraverso quei comportamenti che non nascono dalla cattiveria, ma da un’incompatibilità di fondo e da una scarsa comprensione dei suoi bisogni. Come se il cane fosse lì per dovere, non per una scelta. Lo stesso vale per certe famiglie che si ostinano a voler apparire perfette: due o tre figli, una casa ordinata, un’idea di felicità conforme al modello rassicurante offerto dalla pubblicità. Ma poi, spesso, al di sotto la patina dorata nascono tensioni e frustrazioni, perché magari non si è disposti a rinunciare a nulla.

Ecco perché credo che ogni impegno — specie quelli affettivi — vada scelto con consapevolezza. Non abbiamo obblighi verso un cane del canile, né verso un figlio che ancora deve nascere. Il primo passo è domandarci se siamo pronti; e, per farlo, dobbiamo saperci ascoltare con onestà. Nel mio caso, credevo di essere pronto a convivere con un cane. Mai nulla di più falso. Come ero due anni fa, non lo ero affatto. Ma lungo il percorso — attraverso errori, scoperte e cambiamenti — ho imparato e ho capito che potevo essere il compagno giusto per Kyra.

C’è una parte che non possiamo prevedere, che si rivela solo vivendo, ma ci sono anche segnali, intuizioni, piccole eloquenti verità su noi stessi che possiamo cogliere, se siamo disposti a guardarci dentro.

Non credo che qualcuno abbia il diritto di giudicare le scelte di un altro. Ognuno conosce sé stesso e ognuno, nel limite del possibile, dovrebbe scegliere la propria strada senza sentirsi in colpa per non aver seguito quella degli altri.

Non è una gara a chi ama di più, a chi si sacrifica di più, a chi adempie meglio al copione della cura. È, semmai, una questione di verità interiore: sapere chi siamo, cosa possiamo dare e cosa invece non ci appartiene. Avere il coraggio — sì, anche questo è un atto di coraggio — di non aderire a modelli che non sentiamo nostri. Perché il rispetto comincia proprio da lì: dal non forzare né sé stessi né gli altri a essere ciò che non sono. 

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Una replica a “La misura sbagliata del bene”

  1. […] mio articolo precedente, ho scritto che nessuno dovrebbe sentirsi obbligato a prendersi cura di un altro, che non c’è […]

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