Nel mio articolo precedente, ho scritto che nessuno dovrebbe sentirsi obbligato a prendersi cura di un altro, che non c’è nulla di sbagliato nel rifiutare certi impegni, se non ci si sente pronti o adatti. Lo credo ancora, ma oggi vorrei parlare anche della scelta opposta, quella di chi, pur potendo decidere altrimenti, sceglie di restare. Restare quando sarebbe più facile andarsene, quando nessuno ti obbliga, quando nessuno ti farebbe una colpa se scegliessi di pensare a te stesso.
Alcuni sacrifici nascono da un’empatia autentica e profonda, che non cerca approvazione né riconoscimenti. Non parlo del sacrificio imposto, della cura come destino inevitabile, che spesso logora e svuota chi vi è costretto. Parlo di quelle scelte consapevoli che, pur nella loro fatica, hanno radici nell’amore e nella consapevolezza che in quella fatica, in quella rinuncia, ci sia qualcosa per cui vale la pena.
Ci sono persone affidabili e solide, che sembrano fatte apposta per appoggiarci a loro. Persone che non fuggono mai davanti alle difficoltà, che non si tirano indietro quando la vita chiede loro qualcosa in più. Persone che non si vantano della propria dedizione, ma che traggono da quest’ultima un senso.
La loro presenza è quasi sempre discreta, ma sono fondamenta invisibili di ciò che funziona, resiste e spesso tiene insieme famiglie, gruppi e intere comunità. Se, da un lato, è giusto difendere il diritto di dire no, credo sia altrettanto giusto riconoscere il valore di chi sceglie di dire sì, sapendo quanto costa. Di chi rinuncia a qualcosa non per sentirsi migliore, ma perché sente che può trarre scopo da quella rinuncia e restituire al mondo qualcosa di buono.
L’esperienza di prendersi cura di un altro, se nasce davvero dall’ascolto e non dalla paura o dalla pressione sociale, può essere una delle cose più umane e potenti che ci sia. Non ti rende automaticamente migliore, è vero, ma può farlo se sei disposto ad accogliere il cambiamento che comporta la presenza. Avvicina chi sei e a chi potresti diventare.
Il vero discrimine penso che non stia tra chi si sacrifica e chi no, ma tra chi sa ascoltare se stesso e agire di conseguenza, e chi si lascia trascinare da ciò che è socialmente accettato. Il mondo ha bisogno di chi si conosce abbastanza da non voler ferire nessuno, ma anche di chi è disposto a rimanere, con empatia e lucidità, nei luoghi in cui gli altri spesso si allontanano. Non per dovere, ma per scelta.
Arrivati a questo punto, credo sia giusto — oltre che intellettualmente onesto — dire qual è la mia posizione, raccontare come mi sono comportato io nella mia vita. Non per giustificarmi agli occhi di chi legge, ma per chiarire che quello che scrivo non è una trattazione astratta ma il residuo, il filtrato delle mie esperienze, dirette e indirette. Ho visto persone restare e persone andarsene. Ma, soprattutto, ho riflettuto su tutte le volte in cui io stesso avrei voluto andarmene e invece sono rimasto.
Credo di aver attraversato tutta la gamma delle possibilità. Negli ultimi anni mi sono trovato a farmi carico di situazioni che avrei voluto evitare e a rinunciare a cose a cui non avrei mai pensato di dover rinunciare. In certi casi, la cura non è stata una scelta, ma un obbligo, un dovere che non potevo ignorare. Ho conosciuto quel desiderio lacerante di altrove, di fuga, e ho conosciuto anche l’impossibilità di andare.
Allo stesso tempo, ho provato della gioia inaspettata che nasce quando ti dedichi a qualcuno non perché lo avevi previsto o pianificato, ma perché ti ci sei trovato davanti e hai scelto di esserci. Ho capito che non sarò mai una persona completamente votata agli altri. Non riesco a mantenere un livello di empatia costante e assoluto, nemmeno con chi mi è più vicino. Ho bisogno di una distanza, di una bolla dentro cui nessuno può entrare. Una bolla che mi protegge, che mi permette di sopravvivere. Perché troppa vicinanza mi mette a disagio.
Tuttavia, oggi so che posso uscire, almeno per un po’, da quella bolla. Posso fare un passo fuori per aiutare qualcuno e poi rientrarci senza sentirmi svuotato o annientato. Un tempo credevo che aiutare, prendermi cura dei bisogni degli altri fosse un rischio mortale, un pericolo per la mia stessa identità. Oggi non più. Oggi so che, nei miei limiti, posso farlo senza smarrire me stesso.
Credo che, in fondo, ognuno di noi debba imparare a riconoscere quanto di tutto questo lo riguarda. Quanto delle diverse possibilità — restare, fuggire, proteggersi o aprirsi — è presente nella propria storia. E da lì, cercare un equilibrio. Un equilibrio che appartenga a sé, che permetta di restare quando è giusto e di andare quando è necessario.
MinimTermini



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