C’è un tipo, che incrocio spesso in città, che veniva con me alle superiori. Di solito lo vedo fuori dai bar – non voglio dire più malfamati, perché a Gorizia non è che ci siano davvero bar di quel tipo – ma in quelli diciamo più marginali e malandati, luoghi di ritrovo di quella fascia di umanità alla deriva da cui, di solito, la gente normale si tiene alla larga.
Lui non mi riconosce – o forse preferisce non farlo. In ogni caso, non dà segno di ricordarsi di me. Io, invece, me lo ricordo bene. Era uno di quei ragazzi belli, benvoluti, che attraversavano i corridoi della scuola come se fossero al centro di un palcoscenico, circondati da un’aura quasi animale che li rendeva irresistibili agli occhi delle ragazze. Il tipo che ti aspettavi avrebbe avuto un’esistenza tutta in crescendo. Invece è successo che a un certo punto si è smarrito. Non è stato un singolo errore eclatante a portarlo fuori strada, più una somma di tanti più piccoli e alla fine, secondo me senza sapere neanche come, si è ritrovato a fissare il muro alla fine di un vicolo cieco.
Ci sono momenti, nella vita, in cui anche la scelta giusta arriva tardi. Non sempre perché manchi la volontà, ma perché il contesto ha già chiuso ogni possibilità. Credo che, a un certo punto, lui abbia smesso di opporsi. Ha smesso di cercare una via d’uscita e si è rassegnato ad abitare quel vicolo, a farne casa sua.
Ogni volta che lo vedo, provo un misto di dolore e consapevolezza. Perché so che quella traiettoria lì – quella che lo ha portato dove si trova adesso – poteva essere anche la mia. A volte penso che forse, se lui mi guardasse davvero, vedrebbe in me la sua traiettoria mancata e forse è proprio per questo che non mi guarda.
Viviamo in una società che tende a leggere ogni biografia come frutto di scelte individuali. È la grande narrazione del sei ciò che scegli di essere: una semplificazione brutale, che ignora il peso delle condizioni di partenza, delle strutture sociali e delle disuguaglianze sistemiche. Non solo è una visione fallace, ma anche pericolosa, perché cancella il ruolo determinante della struttura, delle condizioni materiali e affettive che rendono possibili — o precludono — certe traiettorie esistenziali. Le reti familiari, l’autostima, che ti viene instillata o negata, le opportunità che ti vengono offerte o rifiutate: tutto questo scompare, come se bastasse volerlo, come se tutto si riducesse a una questione di merito.
È comodo guardare chi sta ai margini con aria di superiorità. Dire “ha sbagliato, se l’è cercata“. È una forma di autoassoluzione, ma spesso quella che chiamiamo scelta sbagliata è solo l’unica opzione che c’era o quella che appariva come la meno dolorosa in un momento in cui nessuno ti aveva insegnato a sopportare ed elaborare il dolore. Le marginalità non sono il mero prodotto di errori ma la somma di condizioni, l’effetto di un sistema che non prevede seconde possibilità vere e, spesso, nemmeno prime.
E poi c’è la paura. Perché nei volti di chi sta fuori, in quelle vite respinte ai margini, spesso riconosciamo la possibilità – remota ma reale – che possa toccare anche a noi. E allora scatta la difesa, la condanna, il giudizio. Perché prendere le distanze serve a mettere al sicuro noi stessi.
Io, invece, ogni volta che lo vedo, provo anche gratitudine. Perché quella vita mancata che lui rappresenta mi ricorda la mia fragilità, mi fa capire che non tutto ciò che sono è merito mio. Che alcune delle mie scelte giuste erano semplicemente meno impossibili di quanto siano state per lui. Che certi errori che non ho fatto non dipendono solo da me e che il fatto di essermi salvato non dovrebbe rendermi cieco o superiore. Perché forse la differenza tra chi resta dentro e chi finisce fuori è una linea più sottile di quanto ci piaccia pensare, che tutti possiamo oltrepassare, spesso senza rendercene conto.
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