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Il blog di Oreste Patrone


Tu non sei Lui

Si parla spesso di Elon Musk come di un uomo che ha trasformato il mondo grazie alle sue aziende, un innovatore capace di imprimere svolte epocali in settori cruciali dell’economia. Probabilmente è così. Non ho né la competenza né l’ambizione di stabilire se sia vero, ma non è questo il punto di oggi. Ciò che mi interessa, è osservare il meccanismo collettivo, quasi rituale, con cui eleviamo figure come la sua a simboli del nostro tempo.

Non è la prima volta che assistiamo a questa sorta santificazione in vita. Ieri furono i grandi capitani d’industria, poi Bill Gates, poi ancora Jeff Bezos. Ora è il turno di Musk. La liturgia si ripete con formule nuove ma spirito identico: celebriamo il successo misurandone il valore attraverso il patrimonio netto. Il numero di miliardi accumulati diventa un punteggio, una metrica che ordina le divinità contemporanee in un pantheon verticale dove la gloria è proporzionale al posto nella classifica di Forbes.

È curioso come sembriamo più inclini a celebrare chi conquista il mondo piuttosto che chi cerca di cambiarlo, di renderlo un luogo migliore. Qualcuno potrebbe obiettare che anche certi protagonisti dell’imprenditoria globale aspirano, in fondo, a migliorare il mondo. Su questo, però, ho più di qualche riserva. Raramente tributiamo ammirazione a chi propone una visione etica della realtà, capace di rimettere in discussione i nostri paradigmi interiori. Non abbiamo tempo per filosofi, pedagogisti o pensatori morali: il nostro sguardo è catturato dall’abbaglio, dal record infranto, dall’impresa titanica che trasforma la sfida in profitto.

Persino il lessico che usiamo — visionario, rivoluzionario, e dio mi perdoni, messianico — ha smesso di appartenere al campo spirituale o culturale per essere assorbito dall’economia.

Mi viene in mente American Gods di Neil Gaiman, dove le antiche divinità vengono spodestate da nuovi dèi nati dal culto della tecnologia, dei media e del denaro. Ma non è colpa loro, sia chiaro: siamo noi ad aver cambiato l’oggetto della nostra venerazione. Il vuoto lasciato dalle religioni tradizionali — che pure avevano i loro limiti — è stato colmato da qualcosa che non aspira a offrire senso, né a guidare i comportamenti verso un bene comune. Per quanto imperfette, le religioni erano anche sistemi normativi, ispiratrici di una visione etica della convivenza.

Tutto questo, inevitabilmente, dice più di noi che di Elon Musk. Lui, in fondo, fa la sua strada. Siamo noi a interrogarci sempre meno su cosa significhi una vita buona e sempre più su cosa significhi una vita di successo. Viviamo nella dipendenza da un’idea performativa e contabile dell’esistenza, dove il valore coincide con l’efficienza e dove persino la dignità sembra dipendere dalla capacità di generare attenzione, rendita e numeri significativi.

Io, personalmente, sono più incline a lasciarmi affascinare da chi lavora per cambiare le coscienze. Da chi tenta, magari con mezzi modesti, di migliorare le condizioni morali dell’essere umano, anche senza lasciare impronte nella sabbia del Nasdaq. Quando sento dire che qualcuno ha un patrimonio miliardario, non provo niente. Per me, è come se si parlasse un’altra lingua.

Non ho niente contro chi aspira alla conquista di Marte. Forse ci avrebbe pensato anche Tony Stark, che pure incarnava l’archetipo del genio miliardario e visionario, ma lui a un certo punto ha deciso di unirsi agli Avengers per fare del bene e si è sacrificato per salvare l’umanità. Dico solo che anche lavorare per rendere la Terra un posto migliore non sarebbe male. Tra l’altro Elon Musk e Iron Man si sono persino incontrati, sullo schermo. Ma quella, appunto, era la storia di un’Eroe. Un Eroe che guardando la morte in faccia ebbe il coraggio di dire “Io sono Iron Man.”

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