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Il blog di Oreste Patrone


Sulla mia pelle

Secondo una ricerca del 2016 dell’Università della California, scattarsi regolarmente dei selfie, oltre a rendere felici migliora l’autostima. Non che io ne abbia tutto questo bisogno, diciamolo. La mia autostima è abbastanza solida — anche troppo, secondo qualcuno. Però mi piace farlo quando mi sento a mio agio col mio aspetto. Ieri, per esempio, mentre Kyra faceva il bagno nell’Isonzo e io prendevo il sole, mi sono sentito talmente in pace da volermi immortalare. Mi sono fatto un selfie e devo dire che la mia felicità ne ha giovato. Un punto per la California. 

Più tardi, riguardando la foto, ho iniziato a riflettere sui miei tatuaggi. Non tanto su cosa significano quanto su cosa raccontano.

Il corpo è come un archivio del nostro vissuto. Alcune delle cose che conserva non le abbiamo scelte: i segni di una malattia, le cicatrici di un’operazione, le pieghe del tempo, che avanzano senza chiedere permesso, e tante altre che attraverso il corpo si rivelano ma hanno radici altrove. Altre ancora, invece, le decidiamo noi, come i tatuaggi, che sono tracce indelebili delle versioni di noi stessi che abbiamo superato, anche quelle che vorremmo dimenticare o nascondere.

Dal mio primo tatuaggio all’ultimo — ultimo in ordine cronologico — è passato un bel po’ di tempo. Ricordo bene quel primo disegno. Non avevo ancora vent’anni e mi tatuai per mero esibizionismo: sulla spalla, così si sarebbe visto con la canottiera. Lo volevo lì perché si doveva vedere. Col senno di poi, avrei fatto meglio a evitarlo, perché era veramente orrendo.

L’avevo disegnato io, ignorando il consiglio onesto e professionale del tatuatore: “Guarda che non verrà bene.” Ma io non sentii ragioni, volevo reinterpretare a modo mio il logo di Mortal Kombat. Mi sembrava una figata. Così insistetti e lui, con la rassegnazione di chi ha assistito troppe volte a quella scena, mi accontentò.

Oggi il tatuaggio è diventato di moda e ha perso un po’ della sua carica trasgressiva, ma all’epoca, per noi ragazzi, tatuarsi era ancora un atto di ribellione. Gli studi erano pochi e costosi, almeno per le mie possibilità di allora, così ci si arrangiava. Si andava dall’amico dell’amico che aveva la macchinetta. Io, per dire, il mio primo tatuaggio lo feci a casa di un ragazzo che aveva imparato a tatuare durante il servizio militare. Saldava gli aghi a mano, alla vecchia. Dopo aver pulito l’attrezzatura con un disinfettante militare, ricordo che la mise in una bacinella d’acciaio, ci spruzzò sopra dell’alcol e gli diede fuoco. Per sicurezza, disse. Nostalgia canaglia a parte, sono convinto che in quello specifico caso la sfida, più che tatuarsi, fosse l’andare in giro con addosso una cosa così orrenda. Ci voleva un certo coraggio. Ma io, allora, non me ne rendevo conto.

Anni dopo cercai di sistemarlo, riuscendo a peggiorare le cose. Scelsi un tatuatore non all’altezza, che si superò nel rendere ancora più brutto un tatuaggio già nato male. Il colpo di grazia fu una scritta in giapponese, 武士 — bushi, “samurai”, “guerriero”.
Ero riuscito a sconfinare dal brutto al ridicolo.

Col tempo, ho smesso di cercare significati profondi a ogni costo, di caricare ogni gesto di simbolismi e pretese solenni. Ho capito che spesso, anche se non sempre, attribuire un senso a un tatuaggio era un modo, per quelli della mia generazione, cresciuta col residuo dell’idea che i tatuaggi fossero prerogativa di marinai o detenuti, di renderlo socialmente accettabile, di legittimarne la presenza sul proprio corpo.

Ricordo un vecchio servizio delle Iene, in cui Enrico Lucci si era infiltrato a una convention di tatuaggi. Fermava i visitatori appena usciti dagli stand, ancora freschi d’inchiostro e li intervistava sul significato dei disegni, incalzandoli alla sua solita maniera. Di tutti, mi è rimasto impresso un ragazzo, poverino, che cercava di resistere all’interrogatorio di Lucci balbettando una serie di concetti che parevano presi da un biscotto della fortuna. Ho sempre pensato che sarebbe stato meglio se avesse detto, semplicemente, che gli piaceva. La pretesa di un significato, sempre e comunque, riguarda spesso più gli altri che noi. Perché se mi tatuo il nome di mia nonna a cui volevo tanto bene, nessuno avrà mai il coraggio di dire nulla anche se aveva un nome orribile e la tecnica lascia a desiderare, ma se mi tatuo un sole maori fatto bene allora devo averci un motivo, sennò diventa un vezzo deprecabile. Senza contare che, per molti, attingere a una cultura che non ci appartiene — soprattutto quando lo si fa in modo superficiale o senza comprenderne il significato — è considerato una forma di povertà culturale, se non addirittura una mancanza di rispetto.

La mia risposta a questo è sempre stata un netto: ‘sticazzi. Mi piace il sole, me lo tatuo. Punto. Il corpo è mio, non devo dare conto agli altri di quello che ci faccio. Inoltre, all’epoca non esistevano i social, non c’era questa continua esposizione pubblica, questa pressione costante del giudizio collettivo che ha trasformato il like da gesto di approvazione a strumento di censura morale. Si era più liberi, anche di sbagliare, e io devo dire che in tal senso non mi sono mai fatto pregare.

Detto ciò, col tempo sono riuscito persino a essere più indulgente con quella schifezza che ho sul braccio sinistro. È una leggerezza giovanile, certo, ma è anche un ricordo di com’ero. Ci sono giorni in cui riesco perfino a guardarlo con un filo di tenerezza. Quasi.

Negli anni vennero altri tatuaggi, alcuni casuali altri più pensati, con un significato. Ce n’è uno che è un asso di cuori, con due A negli angoli come Antonio e Antonietta, i miei genitori. Le loro mani si intrecciano sopra la carta. C’è il vecchio numero di telefono di quando abitavamo a Farra d’Isonzo: uno di quei numeri che oggi non servono più, ma che porterò nella memoria come una coordinata nel tempo, un punto di riferimento per ritrovare la strada per l’inizio. C’è lo stemma della Provincia, che per me non fu mai solo un luogo di lavoro: fu identità, appartenenza. E poi c’è il legionario romano con il cane da guerra, legato a un momento in cui ho avuto la sensazione netta di ricordare qualcosa su Kyra e su di me. Qualcosa che veniva da prima. Da molto prima.

La forza dei tatuaggi sta proprio in questo, nel fatto che non si possono cancellare. Se a vent’anni sei stato abbastanza idiota da tatuarti il simbolo di un videogioco, lo sapranno tutti. Per sempre.
Ma non è questo il punto. Il punto è che non c’è niente di male ad essere stati idioti. Lo siamo stati tutti, anche chi finge che non sia così o cerca di nasconderlo. E ammetterlo, prima di tutto con se stessi, è un atto di forza, non una debolezza.

È così che si diventa qualcuno che non ha più bisogno di nascondersi, né di giustificarsi. E tutto questo, sia chiaro, non significa che smetterò. Continuerò a tatuarmi finché avrò spazio sul corpo. Magari il prossimo sarà un bel sole maori.

Lo dico soprattutto per mia moglie, che sopporta questa mia passione con pazienza ammirevole e che adesso, leggendo, starà scuotendo la testa. Non si è lasciata abbindolare neppure quando mi sono tatuato il suo nome insieme a quello di nostro figlio.
Troppo furba per cascarci.
E io, in fondo, lo sapevo.

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Una replica a “Sulla mia pelle”

  1. […] aver letto il mio articolo sui tatuaggi, un’amica mi ha chiesto perché, tra tutti i videogiochi possibili, proprio Mortal Kombat mi […]

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