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Il blog di Oreste Patrone


Finish Him!

Dopo aver letto il mio articolo sui tatuaggi, un’amica mi ha chiesto perché, tra tutti i videogiochi possibili, proprio Mortal Kombat mi avesse colpito al punto da ispirarmene uno. Perché non Zelda, Final Fantasy o Resident Evil? Titoli altrettanto famosi, ma esclusi dalla selezione. Mentre cercavo di spiegarlo, ho capito che dietro quella scelta c’era abbastanza materiale per un articolo. E così, eccoci qui.

All’inizio degli anni ’90, il re incontrastato dei picchiaduro era Street Fighter II. Bellino, abbastanza divertente e tuttavia privo di quel qualcosa in più che ti facesse sentire coinvolto in una narrazione più ampia di quella del singolo partecipante al torneo.

In Street Fighter II, ogni personaggio combatteva per un motivo preciso; alcuni magari erano discutibili, ma tutti avevano una loro coerenza morale. Pensiamo a Dhalsim, mistico yogi indiano che combatte per liberare il proprio villaggio dal giogo della Shadaloo, portando al collo una collana fatta coi teschi dei bambini morti per la fame. O a Chun-Li, agente segreta cinese, che entra nel torneo per vendicare la morte del padre, ucciso da Mr. Bison. O ancora Guile, il soldato americano, che partecipa per indagare sulla scomparsa dell’amico Charlie Nash e ottenere giustizia. Persino Bison, principale antagonista della serie, capo del sindacato criminale di Shadaloo, nelle sue aspirazioni di dominio planetario vedeva nel combattimento uno strumento per raggiungere i suoi scopi.

Tutte queste storie si inserivano all’interno della cornice di una struttura narrativa basilare, quella del torneo, funzionale allo scopo del gioco ma priva di qualunque profondità. Anche quando la storia evolvette, insieme proprio al personaggio di Bison, assumendo i toni di una storia di spionaggio internazionale, rimase piatta. Tante storie singole, ma tutte finalizzate a giustificare la presenza di personaggi che, in fondo, volevano solo vincere il torneo o sconfiggere Bison — ridotto a mero pretesto narrativo per incarnare il final boss.

Inoltre, la violenza in SF2 era spettacolare, coreografica. Sopra le righe, ma mai disturbante. Anche nel sonoro, certi combattimenti ricordavano più le risse di Bud Spencer e Terence Hill, che scontri all’ultimo sangue tra guerrieri. Tant’è vero che, nel peggiore dei casi, un combattente finiva solo pesto e ammaccato.

Tutto questo finì con l’arrivo di Mortal Kombat, che già dal titolo lasciava presagire un cambio radicale di prospettiva.

In Mortal Kombat, infatti, il combattimento era brutale. Sangue che zampillava, arti spezzati, decapitazioni. Le fatality, le cosiddette mosse finali dei combattenti, non erano semplici coreografie, erano dichiarazioni di morte, atti rituali veri e propri. Eccessi così plateali da scatenare la censura in diversi Stati, fino a contribuire direttamente alla creazione dell’ESRB, il sistema di classificazione dei videogiochi negli Stati Uniti. Una rivoluzione che merita di essere raccontata.

Nel 1993, insieme ad altri titoli controversi come Night Trap e Doom, Mortal Kombat finì sotto i riflettori del Congresso degli Stati Uniti. Il senatore Joe Lieberman promosse una serie di audizioni pubbliche per valutare l’impatto dei videogiochi violenti sui minori. Fu così che l’industria videoludica, per evitare un intervento diretto del governo, decise di autoregolamentarsi. Così, nel 1994, nacque l’ESRB.

Ma il punto non era solo il sangue, era l’atmosfera: cupa, gotica, angosciante, lontana anni luce dal buonismo eroico di SF2. I personaggi di Mortal Kombat non erano atleti, individui tormentati o guerrieri onorevoli. Erano gli antieroi più letali e senza scrupoli del multiverso digitale: assassini, mercenari, demoni, stregoni, mutaforma e creature provenienti da regni paralleli e corrottissimi. Gente che combatteva per sopravvivere, altro che gloria o giustizia.
In Mortal Kombat si giocava al massacro.

Per quelli come me, che negli anni ’90 cercavano continuamente margini di ribellione, giocare a Mortal Kombat non era un semplice passatempo. Era una dichiarazione di appartenenza. Scegliere MK significava rifiutare la narrazione consolatoria di SF2 e immergersi in un universo cupo e caotico, ma terribilmente affascinante.

Ci ha lasciato addosso frasi, pose. Tatuaggi…
È entrato nel nostro linguaggio e nel nostro immaginario.
È diventato cultura.

Oggi, anche se per molti è morto — superato da titoli tecnicamente più sofisticati ma meno iconici — il Kombat vive ancora nei cuori di quelli come noi. Eroi silenziosi, che hanno dedicato pomeriggi interi a difendere Reami immaginari dalla minaccia di nemici crudeli, un gettone alla volta, magari sconfitti ma mai battuti, sopravvissuti alla calura soffocante di sale giochi senza aria condizionata, nutriti di Fanta e Fonzies, tenuti in piedi dalla sacra fiamma della vendetta. Eroi. Perché tra una fatality e l’altra, abbiamo imparato più sull’onore e la perseveranza che in mille ore di educazione civica. Noi restiamo, con in tasca l’ultimo gettone, ronin digitali e guardiani del tramonto, per l’ultimo round. Perché la lotta, per noi, non è mai finita. È solo entrata un pausa.



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