Non è infrequente, quando ti dedichi con passione alla scrittura, che qualcuno ti dica: “Dovresti farne un lavoro. Dovresti scrivere un libro.” Spesso è solo una forma di sostegno, un modo di farti sentire apprezzato – e fa piacere. Nondimeno, parlandone con alcune persone mi è capitato di cogliere una sorta di disappunto, come se continuare a fare il proprio lavoro fosse, in qualche modo, un tradimento rispetto alla vocazione autentica della persona.
Io non l’ho mai vissuta così.
Non ho mai pensato alla scrittura come a una possibilità di riscatto da una vita che non mi soddisfa. La mia vita mi piace.
Certo, capisco che spesso queste frasi nascano dall’entusiasmo. Chi ti conosce o ti legge, a volte, è talmente coinvolto da quel che scrivi da pensare che là fuori ci sia un pubblico enorme pronto a entusiasmarsi come lui per un tuo scritto. Ma la realtà, soprattutto nel mondo editoriale, è più complessa di così.
E poi sorrido, perché molti di quelli che ti dicono “Dovresti scrivere un libro” sono gli stessi che quel libro, probabilmente, non lo comprerebbero mai. Non tutti, certo, ma la mia esperienza mi insegna che tra il dire e il fare, tra il suggerimento e l’azione, passa spesso un abisso. E va bene così. Nessuno ha il dovere di leggere, di acquistare e di sostenerti. L’ho imparato e non ho nulla da recriminare.
Quello che però mi interessa dire è che non ho mai vissuto la scrittura come una fuga dal mio presente. Il mio lavoro, quello vero – che ha a che fare con l’ambiente e le normative, la cosiddetta burocrazia – mi piace. Mi piace al punto che ne ho fatto uno dei miei vettori di espressione. Uno dei motivi per cui mi piace è proprio il fatto che, sorprendentemente, mi dà modo di scrivere un sacco.
Scrivere in modo tecnico, certo. Scrivere dentro binari normativi ben definiti. Ma anche in quei binari, il contesto è stimolante e le possibilità, per quanto delimitate, non mancano: spiegare qualcosa in modo che sia comprensibile, utile, efficace; scegliere le parole giuste, trovare l’inquadramento adatto, costruire il flusso e l’impaginazione in modo che rispettino un’estetica sicuramente soggettiva, ma pur sempre espressione di una spinta creativa che, così, riesco ad appagare anche in ufficio. Ne sanno qualcosa i colleghi costretti a lavorare con me, dato che a volte faccio questioni di principio su dettagli apparentemente irrilevanti come l’uso delle parentesi o i punti elenco — uso solo parentesi quadre, perché le tonde mi disturbano e aborro qualsiasi cosa che non siano le linee dritte.
Il mio lavoro stimola quella creatività che nasce dal confronto quotidiano con la complessità. E io non ho una sola la spinta creativa che mi porta a scrivere di fantascienza o di cani. Ho anche quella più razionale e operativa, che mi spinge a gestire problemi tecnici, giuridici e amministrativi. Il mio lavoro mi permette di fare entrambe le cose. Non voglio fuggire da lui: ogni tanto vorrei staccare, come tutti. Ma scappare, no.
La scrittura, per me, non è una scorciatoia né una rivincita. È un luogo tutto mio dove posso esprimermi come voglio. Una volta scrivevo molto e pubblicavo poco. Poi qualcosa è cambiato: ho capito che non valeva la pena trattenersi, che avrei potuto lasciare che le cose uscissero così come sono, senza troppi filtri. Soprattutto se imposti dagli altri.
In MinimiTermini metto tutto quello che mi passa per la testa, senza costringermi dentro uno schema, senza chiedermi se il pubblico gradirà o meno quell’argomento, senza l’ossessione di dover variare sempre argomento per non annoiare. Se un tema mi appassiona, continuo a scriverne. Punto. Perché la scrittura, per me, è un modo per dare voce a un bisogno che ho fin da bambino: comunicare con gli altri.
Ricordo ancora l’espressione esasperata di mio padre quando, ancora piccolo, parlavo per ore di cose che a lui – comprensibilmente – non interessavano molto. Quando non potevo parlare a voce, cominciavo a scrivere. Non era sfogo, né era disagio. Era mera comunicazione.
È questo che cerco, quando pubblico: il contatto.
Scrivo perché qualcuno possa leggere e pensare: “Mi ci ritrovo.”
Scrivo per entrare in relazione, per sentire un’eco, una risonanza.
L’ho capito con chiarezza durante l’illustrazione del mio tema natale. Ho capito che il mio desiderio non era tanto spiegare, quanto comunicare, arrivare alle persone. Oggi scrivo di cani, di fantascienza, di filosofia, di politica, di diritto, di emozioni.
Scrivo perché non posso farne a meno, ma anche perché mi fa bene. E se c’è qualcuno là fuori che ha voglia di leggere, di riflettere, di parlare con me attraverso i commenti allora, bene. Altrimenti, va bene lo stesso.
Perché la scrittura non è il mio riscatto. È solo il modo migliore che ho per far sentire la mia voce.
MinimiTermini



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