Quando ho iniziato a lavorare nel settore ambientale, sul finire del 2005, molte delle evoluzioni normative che oggi diamo per scontate dovevano ancora compiersi. Erano già stati fatti i primi tentativi di una sistemazione organica della disciplina, ma si era ancora lontani dall’attuale struttura. Anche l’approccio alla progettazione e alla consulenza era diverso e più solitario.
All’epoca era raro confrontarsi con grandi società di progettazione o consulenza. Esistevano, ma non erano diffuse nella mia regione, che restava tutto sommato marginale rispetto ad altre realtà del Nord Italia, dove quei modelli iniziavano a consolidatarsi. Da noi era più frequente imbattersi nella figura del professionista solitario: un autodidatta appassionato, che si avventurava nella consulenza ambientale con spirito quasi pionieristico. Approfondiva i temi a forza di studio e lavoro sul campo, costruendosi da solo una reputazione. Spesso erano personalità carismatiche, capaci di esercitare un’influenza su chi le incontrava — sul sottoscritto, senz’altro. Attorno a loro si creava una sorta di aura fatta di autorevolezza e passione.
Io mi sono formato in quel contesto, dialogando con queste persone, osservandole con ammirazione. Li ho sempre visti un po’ come pistoleri del Far West: individui solitari e indipendenti, affermatisi solo grazie alle proprie capacità.
Questa immagine mi ha sempre affascinato. Forse è per questo che ho cercato, nel mio piccolo, di assomigliare a quelle persone. Ho voluto costruirmi una conoscenza solida e trasversale, che mi rendesse il più possibile autosufficiente. Anche se ho lavorato perlopiù in ambiti specifici — prima nel settore dei rifiuti, poi nelle emissioni in atmosfera, poi di nuovo nei rifiuti — ho studiato tutto. Le acque, le attività estrattive, la VIA, l’AIA, i modelli autorizzativi. I settori non direttamente collegati al mio ambito li ho approfonditi meno, certo, ma mai ignorati.
C’è anche un prezzo, però, in tutto questo. Mi rendo conto che ho sempre fatto fatica a lavorare in gruppo. Essendomi abituato da subito a fare da solo, a essere autonomo, ho sempre fatto ricorso al supporto degli altri in modo marginale e vissuto il contributo esterno più come un’interferenza che come un arricchimento. La solitudine, per chi è abituato a fare affidamento solo su se stesso, può renderti insofferente, egoista persino, arrivando a farti confondere l’autonomia con l’egemonia di pensiero.
Ma ho anche dei difetti, sia chiaro.
Col tempo, le cose sono cambiate molto. Un tempo, i nostri interlocutori erano perlopiù imprenditori locali, legati al territorio. Da una quindicina d’anni a questa parte, si è assistito all’affermazione esponenziale di grandi operatori economici: società strutturate, con proprie divisioni ambientali, che spesso non si avvalgono nemmeno di consulenti esterni perché possiedono già al proprio interno tutte le professionalità necessarie.
D’altro canto, è innegabile che l’evoluzione del contesto normativo italiano abbia reso certe figure anacronistiche. Si è moltiplicato il numero delle norme, è aumentata la settorializzazione e si è progressivamente affermata una logica iperspecialistica che ha cambiato il modo stesso di lavorare.
Tutto ciò spiega perché sia diventato necessario strutturarsi in organismi complessi, capaci di affrontare in modo integrato questioni che una sola persona non può più padroneggiare da sola. È diventato difficile, se non impossibile, mantenere un approccio solitario, si lavora per forza in équipe, anche solo per orientarsi tra normative che spaziano dal procedimento amministrativo ai combustibili, dalle certificazioni ai meccanismi premiali del GSE.
Siamo passati da un mondo artigianale a un sistema iperspecializzato, dove l’approccio corale ha sostituito il talento solitario. In questo nuovo contesto, il pistolero solitario e onnisciente è diventato una leggenda.
E come tutte le leggende, vive nel ricordo.
Eppure, io non riesco a considerare inutile quel retaggio. Lo porto dentro, ogni giorno, in ogni lavoro che affronto. Non perché rifiuti il presente — forse un po’ sì — ma perché credo che in quel passato ci sia ancora qualcosa di vitale. Se oggi quel mondo non esiste più, io sento di averne raccolto in parte l’eredità. E non per un caso, né per una coincidenza temporale ma perché l’ho scelto. Io volevo essere come loro.
E sono ancora uno di loro.


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