Quand’ero bambino andavamo a Napoli una volta l’anno, di solito in estate. Ricordo che, anno dopo anno, cambiava l’auto ma dalle casse usciva sempre la stessa musica: Cocciante, Concato, ma soprattutto Pino Daniele. Lui, tra tutti, è quello che mi ha lasciato un ricordo indelebile, perché era l’unico che cantava in napoletano.
A casa nostra, i miei si rivolgevano a me e mia sorella in italiano, ma tra loro parlavano in dialetto. Così lo abbiamo imparato anche noi. Ma il napoletano cantato è un’altra cosa: ha una forza diversa, un’intensità che ti attraversa e mette in vibrazione altre corde, più intime e potenti. Ancora oggi, pur non essendo mai stato un grande ammiratore di Pino, mi capita di riascoltare alcuni suoi brani. Lo faccio per risentire il dialetto, per riconciliarmi con una parte di me che da quando non ci sono più i miei non ho avuto molti altri modi di curare.
Forse è anche per questo che, quando riprendo in mano i miei progetti letterari ambientati in Campania, sento di avvicinarmi a qualcosa che mi manca. Il mio sgangherato commissario non fu solo un divertissement, ma un pretesto per non disperdere quell’eredità, per restare legato a un mondo che altrimenti avrei rischiato di perdere. Me ne sono accorto anni dopo aver smesso di scriverlo, quando è riaffiorato il desiderio di riprenderlo, dandogli un respiro e una dignità diversi, non più solo una macchietta, uno spunto comico costruito sui tempi del dialetto e sui suoi cliché, ma un modo per rendere omaggio a quelle radici e riconciliarmi con il passato che rappresentano.
Che poi, in verità, sono circondato da persone che parlano napoletano. Lo sento in coda alla cassa del supermercato, nei corridoi dei centri commerciali, persino sul lavoro mi è capitato. Ma non è la stessa cosa. È come se quel dialetto, identico nelle parole e nelle cadenze, avesse perso per strada la sua intimità, il suo legame coi miei genitori. Per me, non era solo un codice per comunicare, ma qualcosa che ci teneva insieme. O forse sono io ad averlo perso, quel legame. Forse per questo, oggi, anche in mezzo a tante voci simili, mi sento ancora un po’ più lontano da casa.
È strana la vita di chi è cresciuto come me. So dove affondano le mie radici, ma so anche che non potrei più attecchire in quel terreno. E, allo stesso tempo, mi sento sempre un po’ estraneo anche qui, anche se ci sono nato. Mi sembra di essere una pianta trapiantata, che sopravvive, mette rami e foglie, ma porta sempre in sé la memoria di un altrove in cui era parte di qualcosa di più grande.
Ascoltare quella musica è un modo per tenere viva quella memoria, per continuare a tornare, più che in un luogo fisico che non esiste più, in un tempo che custodisce il ricordo della lingua dei miei genitori.
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