Il mio ultimo articolo mi ha fatto riflettere su una cosa, ovvero sulla difficoltà di rimanere fedeli a se stessi quando le circostanze richiedono di adeguare il proprio comportamento o il proprio stile a un certo codice. Se, da un lato, in molti contesti — partendo dalla scuola passando per la televisione e i social — l’espressione individuale viene incoraggiata, dall’altro siamo consapevoli che la nostra società filtra costantemente i tratti del nostro aspetto, siano essi naturali o artificiali. Non tutti i simboli sono accolti nella stesso modo: un abito particolare, un piercing o un tatuaggio possono essere letti in modo diverso a seconda di chi li osserva e del luogo in cui ci troviamo.
Le nostre scelte estetiche raccontano chi siamo, cosa scegliamo di mostrare e, spesso, ciò che vogliamo che gli altri pensino di noi. La moda non è mai neutra. Essa è un linguaggio e, come ogni linguaggio, trasmette informazioni la cui lettura è influenzata dal contesto in cui avviene la comunicazione.
Il nodo della questione, secondo me, sta nella differenza che passa tra esprimere sé stessi e imporlo agli altri sempre, in ogni frangente. Adattare il proprio aspetto a un contesto non significa tradire la propria identità; al contrario, può essere un atto di intelligenza comunicativa. Se so che, in una determinata situazione, il mio aspetto potrebbe interferire con il messaggio che voglio trasmettere, posso scegliere consapevolmente di modificarlo. Non credo che questi compromessi siano sempre negativi. Fanno parte della vita di chiunque e rifiutarli in blocco in nome di un ostinato radicalismo identitario può essere il segno di un conflitto irrisolto con il resto del mondo, più che una reale fedeltà a sé stessi. A volte, infatti, il pregiudizio altrui finisce per diventare il pretesto di una rivendicazione perpetua, un’armatura dietro la quale celare la propria povertà di spirito.
Se un giorno dovessi essere convocato dal Presidente della Regione — faccio per dire, non mi è mai capitato — non mi presenterei di certo nel suo ufficio coi Baggy e la T-shirt degli Avengers. Non perché rinneghi il mio stile o il mio modo di vivere, ma perché in quella circostanza vorrei che l’attenzione fosse concentrata su quello che ho da dire, sulle mie idee, non sul mio aspetto. Adotterei quindi un comportamento adeguato alla situazione e non ci vedrei niente di male. Chi interpreta questi gesti come una resa al conformismo confonde due cose diverse: la rinuncia imposta dalla paura di non essere accettati e la scelta consapevole di adattarsi per rispetto e strategia comunicativa.
Siamo parte di un sistema fatto di relazioni: i nostri gesti, anche quelli che crediamo privati, dialogano sempre con lo sguardo degli altri. Così come non si entra in chiesa con i pantaloni corti o non si affronta un colloquio di lavoro in bermuda [a meno che non sia per un posto di bagnino e non si svolga in spiaggia], non per ipocrisia ma per rispetto di certe regole sociali implicite, così non si entra nello studio del Presidente della Regione con la bandana in testa alla 2Pac. A meno che tu non sia proprio 2Pac, chiaro. In quel caso, sorvolando sul fatto che dovresti essere morto da un pezzo, diciamo che ci sta.
2Pac a parte, essere sé stessi non significa esibire i propri tratti identitari in ogni circostanza — quello denota più che altro insicurezza e bisogno di conferme. Significa, piuttosto, conoscere abbastanza bene la propria identità da non temere di metterla momentaneamente tra parentesi, quando serve. Perché se ha bisogno di essere urlata continuamente, in ogni contesto, forse quell’identità è meno solida di quanto pensiamo.
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