Nel 1976 Pasquale Festa Campanile firma la regia de Il soldato di ventura.
Il film rievoca in chiave ironica e romanzata la celebre disfida di Barletta del 1503, quando tredici cavalieri italiani affrontarono tredici francesi. Tra i tanti personaggi memorabili, quello che più mi è rimasto impresso è quello di Mariano da Trani.
Viene presentato come un grande cavaliere, cantato dai poeti e temuto dai nemici, al punto che il solo evocarne il nome fa tremare chiunque osi sfidarlo: “Prendi Attila, Riccardo Cuor di Leone, Giulio Cesare, Annibale, mischiali tutti insieme e quelli non fanno neppure un pelo del c… di Mariano da Trani” è così che ce lo presenta Bracalone Da Napoli.
Ettore Fieramosca [Bud Spencer], capitano di una sgangherata compagnia di ventura al soldo degli spagnoli, spera con tutto il cuore che Mariano si unisca al gruppo, ma non riesce in alcun modo a trovarlo. Così, per non rinunciare alla sfida, i nostri ripiegano su un espediente, mettendo un fantoccio armato a cavallo per fingere la sua presenza. I francesi, però, scoprono l’inganno.
Ma è proprio quando la disfida sembra sfumare, che sopraggiunge al galoppo, lancia in resta, un cavaliere in armatura nera, con l’elmo sovrastato da un teschio. Si accosta alle file degli italiani e si presenta: “Mariano è il mio nome, Trani il mio feudo. Chiedo di battermi contro i francesi!” La sola forza del suo nome è sufficiente a riaccendere le speranze degli italiani. Ma c’è un problema: il Capitano francese La Motte [Philippe Leroy] o non ha mai sentito parlare di Mariano o non gli importa e si avventa su di lui con la sua mazza ferrata. È in quel momento che la verità viene a galla. Mariano si arrende al primo colpo e confessa di non essersi mai battuto con qualcuno in vita sua, di aver pagato l’Ariosto e il Tasso perché scrivesse le sue gesta. Non c’è mai stato alcun eroe, solo un abile inganno letterario che, grazie alla potenza del racconto, aveva trasformato un codardo in una leggenda.
Quella scena mi torna in mente spesso, ultimamente.
Oggi esistono versioni digitali dell’Ariosto e del Tasso in grado di comporre elogi gratuiti e infiniti. Il problema è che prima o poi arriva il momento della prova, che sia una conferenza, un confronto pubblico o una semplice conversazione. E il rischio, quando si prende in prestito una mazza ferrata troppo grande, è che alla prima occasione pubblica tutti si accorgano che non hai la forza di reggerla. È lì che si capisce se sei davvero un cavaliere o solo un Mariano da Trani qualunque. Nel dubbio, forse, meglio scegliersi un’arma più modesta, nelle nostre possibilità, e rinunciare al vezzo esibizionistico di teschio sull’elmo. Soprattutto se quel teschio non appartiene a un nemico che abbiamo ucciso, ma è solo una copia generata da un algoritmo.
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