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Il blog di Oreste Patrone


Dove siamo passati

A volte mi chiedo cosa ci faccio qui. 
Non credo di essere l’unico: molti di noi sentono il bisogno di sapere quale sia il proprio scopo, forse per sentirsi un po’ meno irrilevanti, forse perché vogliono credere di essere qualcosa di più di un piccolo ingranaggio in una macchina immensa, di cui ignorano funzionamento e finalità. A volte mi domando se la mia importanza stia nell’essere uno dei tanti pezzi necessari o se, in qualche modo, possa considerarmi più necessario di altri.
A voi non capita mai?

C’è chi si sente il perno dell’universo e chi si aggira come un’ombra tra le ombre. Chi non si fa domande e chi invece, come me, se ne fa anche troppe. Ho cambiato lavoro più volte, mi sono dedicato a molte attività e in ciascuna ho trovato motivi di soddisfazione. Ho provato la libertà della bicicletta, il piacere di scrivere. Ho riempito i social di immagini, parole, racconti su di me, sulla mia famiglia, sulle nostre abitudini. Quando i miei genitori sono scomparsi e abbiamo deciso di rendere i loro profili commemorativi, ho capito che quelle tracce digitali che ci sopravvivono sono una parte del nostro lascito. Domani, nella rete, resteranno i segni del nostro passaggio, che raccontano il nostro viaggio come tante cartoline.

Mi chiedo se abbia fotografato i luoghi giusti o se ci siano stati altri che avrei dovuto esplorare. Se le tracce che ho lasciato raccontino davvero chi sono stato o, piuttosto, chi volevo sembrare. Perché se da un lato sembra che ognuno di noi sia esattamente dove dovrebbe essere, dall’altro continuo a domandarmi come accidenti ci sia arrivato, qui. A volte mi sento come uno dei protagonisti di Una notte da leoni al risveglio. Spaesato, con la vaga impressione che manchi un pezzo del racconto.

Ma poi, chi ha stabilito quale sarebbe questo posto giusto? Noi stessi, dicono i maestri — quelli con le barbe lunghe e i modi pacati di chi sembra aver capito un sacco di cose. Lo decidiamo con le nostre scelte quotidiane. Eppure io, che non di rado ho scelto non ciò che desideravo davvero, ma ciò che volevo che gli altri pensassero di me, in realtà ho lasciato che fossero gli altri a scegliere al posto mio. Così, il mio posto giusto non è altro che quello che agli altri sembrava giusto per me.

Forse è questo, il grande rischio dei social: confondere ciò che siamo con ciò che vorremmo sembrare, fino a perdere di vista la differenza. Ed è proprio qui che il viaggio rischia di ridursi alla serie di cartoline di cui ho detto prima, che non raccontano il cammino ma solo una sua messinscena.

Forse non troverò mai una risposta definitiva sul senso del viaggio. Ma già il fatto che stia qui a domandarmelo mi sembra una cosa buona. Sto cercando il pezzo di racconto mancante e lo faccio nell’unico modo sensato che conosca: guardandomi indietro e risalendo a ritroso fino al punto in cui ho perso di vista il mio Doug. Perché, in fondo, ne abbiamo tutti uno.

Forse è lì che potrò capire davvero dove sono passato.

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