Siamo abituati a pensare che parlare sia sempre meglio che tacere. Che il confronto, anche acceso, sia segno di vitalità democratica. Ma questa convinzione, alimentata dai social e dall’illusione che basti scrivere qualcosa sulla propria bacheca per contribuire al dibattito, è una convinzione sbagliata.
Non tutto ciò che pubblichiamo, infatti, nasce dal desiderio di confronto. Spesso, dietro ai post si celano — neanche troppo velatamente — provocazioni, colpi sparati nel vuoto per vedere chi reagisce. Gesti che simulano il dialogo ma lo svuotano di ogni senso.
Il dialogo implica ascolto, reciprocità. Richiede tempo, pazienza. Il post, invece, è spesso un gesto unilaterale, una dichiarazione che non cerca risposta ma conferme, finendo per provocare reazioni. E così, invece di gettare ponti, alziamo muri.
La libertà di parola è un bene prezioso, ma se si riduce a un esercizio dialettico autoreferenziale genera solo entropia. Un disordine che aumenta le difficoltà nel capirsi e aggiunge mattoni al muro fatto di incomunicabilità, giudizi affrettati e ostilità gratuita la cui versione tragica è il muro da cui i popoli in guerra si scambiano missili e invettive.
Il confronto è necessario – e ci mancherebbe. Ma quello che accade sui social ne è la parodia.
Forse, ogni tanto, dovremmo rivalutare il silenzio. Giusto per non aggiungere altri mattoni a quel muro. Forse dovremmo provarci. Forse dovremmo fare come il signor Palomar, che si mordeva la lingua tre volte, prima di fare qualunque affermazione. Io prometto che inizio da domani – questa, oggi, mi è scappata.
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