di Andrea Olivieri
Lungo tutto Novecento, in Italia come nel mondo, ogni movimento giovanile ha prodotto una sua precisa sottocultura, riconoscibile da un certo linguaggio, un determinato stile nel vestire e uno specifico genere musicale. Ci sono state epoche particolarmente ricche sotto questo profilo, capaci di produrre una moltitudine di tribù urbane, con il loro stile, il loro slang e la loro musica.
Oggi mi guardo attorno e nelle strade della mia città vedo solo ometti griffati vestiti di nero, tutti soffocantemente uguali: i cosiddetti maranza. Un’immagine nella mia mente, come l’istantanea di un momento irripetibile, più di altre mi dà il senso di questa estrema e ormai perduta differenziazione nelle appartenenze identitarie giovanili: risale alla metà degli anni ‘80, sono un adolescente, mi trovo a Modena, al concerto degli U2. Attorno a me c’è una folla di giovani che ostentano gli stili più diversi: le creste mohicane dei punk, i capelli cotonati e il rossetto dei dark, il ciuffo a “banana” e i jeans dei rockabilly, la bandana al collo e le creeper ai piedi degli psychobilly, il capello lungo, il pantalone attillato e le borchie dei metallari. Non credo si possa sottovalutare l’entità e il significato di questo depauperamento nella varietà delle estetiche delle giovani generazioni e mi viene spontaneo ripercorrere pezzi di recente storia sociale giovanile di questo paese, per tentare di capire quando si è prodotto il blackout che ha causato l’attuale lunga notte delle controculture.
La fine del movimento antagonista degli anni ‘70 in Italia, in un’orgia di eroina, violenza terroristica e repressione di Stato, chiude in un clima di lugubre rassegnazione un ciclo di lotte che verrà raccontato dalla storiografia ufficiale quasi esclusivamente sotto il segno del piombo e del sangue. Eppure quel decennio fu innanzitutto un irripetibile, gioioso, vibrante ed esuberante concentrato di utopia rivoluzionaria. Il microcosmo movimentista italiano dell’epoca si caratterizza infatti per un caleidoscopio di iniziative che vanno dall’occupazione delle fabbriche al sorgere di comuni fricchettone, dalla nascita dei comitati di quartiere ai manifesti femministi, dagli esprori proletari alla pubblicazione di riviste underground. E ancora: l’autoriduzione delle bollette, i sit-in di protesta, le mobilitazioni contro gli ospedali psichiatrici e i gruppi di studio (bambino, ne ricordo uno piuttosto affollato a casa mia sulla storia dell’Unione Sovietica, animato dagli amici tardo-fricchettoni dei miei genitori). E soprattutto la lotta per la casa e contro il caro affitti, una delle battaglie più iconiche che associazioni di quartiere e militanti mettono in atto già dai primi anni ‘70 per rispondere alla questione dell’emergenza abitativa, in particolar modo in città dalla forte tradizione operaia come Milano (ne sorge uno anche nella periferica Gorizia, a opera del “Gruppo Casermette”, un comitato di giovani cattolici poi confluiti nel PCI). Poi, dopo anni di fervore rivoluzionario, sul finire del decennio, le geografie della militanza politica vengono sconvolte e il movimento si suicida. Precarizzazione del lavoro, psicodrammi pubblici (le contestazioni plateali di Autonomi e Indiani metropolitani a Luciano Lama, segretario della CGIL), eroina, lotta armata, delirio estremistico, giovani che mimano il gesto della P38 e assassinio di Aldo Moro, sono altrettante tappe nella rapida dissoluzione di quel “Lungo Sessantotto” che furono gli anni ’70 in Italia. Fine della militanza attiva e dell’utopia rivoluzionaria. Dal ’77 in poi per chi non vuole scegliere la strada dell’eroina e della lotta armata c’è solo il ripiegamento nella sfera privata.
Patinati, superficiali, vuoti, hanno inizio gli anni ‘80. È la stagione dell’edonismo, del consumismo e dell’effimero: non per questo, però, si spengono le istanze e i bisogni dei gruppi giovanili meno allineati al sistema. Anzi, inizia una nuova stagione di lotte. In una società che sembra solo voler dimenticare, divertirsi e consumare, il ritorno all’individualismo più gretto è rifiutato da una scena alternativa fatta di giovani che continuano a lottare per non essere incanalati in schemi di massa, per decidere della loro vita, per esprimersi, creare, lottare per i loro ideali, per cambiare la società. Ma all’alba degli anni ‘80 questa nuova realtà antagonista esprime il proprio disagio in forme nuove, non riconoscendosi più nella cultura rigidamente ideologica di derivazione marxista, guardando semmai allo spontaneismo punk, scoppiato tra Inghilterra e Stati Uniti negli stessi anni in cui il movimento in Italia si chiudeva nella sua spirale di disperazione e violenza.
Più che ai movimenti operaisti, il nuovo dissenso giovanile si ispira a un modello identitario di matrice anarchica e anglosassone. È un nuovo modo di intendere l’antagonismo politico e culturale, fondato sulla musica come forma di comunicazione principale per esprimere urgenza sociale e umana. Le nuove soggettività emergenti degli anni Ottanta sono autorganizzate e la loro lotta per la gestione degli spazi urbani non ha più finalità abitative, quanto di luoghi di aggregazione autogestiti da cui esprimere la propria cultura. Tra queste manifestazioni identitarie giovanili spicca la sensibilità controculturale di una neo-avanguardia particolarmente spettrale e intimista, quella del gothic-punk, che in Italia sarà conosciuta come movimento dark. È un sottobosco di irregolari e anime dilaniate che alle urla dell’hardcore punk preferiscono le atmosfere decadenti, le algide estetiche del post-punk inglese e lo stile delle avanguardie artistiche storiche, quali dada, surrealismo e futurismo, aggiornate ai tempi della Guerra fredda.
Un movimento ampio, vivace, partecipato, che, pur non riconoscendosi nella parte più ideologizzata della galassia antagonista degli anni ’70, si aggancia comunque alle battaglie rimaste inconcluse nel clima surreale della fine di quel decennio, dando vita a una produzione culturale dal basso che, tra rivendicazioni di spazi sociali e comunicativi, dischi, concerti, fanzine e collettivi artistici, porta avanti istanze quali il pacifismo e la battaglia contro il nucleare, dando vita al primo serio movimento ecologista. E’ un breve momento di fulgido splendore giovanile, in un’epoca in cui – tra Milano da bere, paninari col Monclair e TV berlusconiane – il conflitto e la controcultura sembravano essere spariti dall’orizzonte esistenziale dei giovani. E tuttavia, fu un attimo: l’istante dopo tutto diviene moda, mercato, fashion.
Iniziano gli anni ‘90, l’ultima volta in cui le controculture e i movimenti giovanili antagonisti si affacciano sulla scena italiana, esprimendo una variegata quantità di linguaggi, estetiche, musiche, stili e immaginari radicali. Qualcosa che è perfettamente rappresentata dalle rivendicazioni dei movimenti che sfilano a Genova nel luglio del 2001. Un decennio che in Italia termina di fatto proprio in quei giorni, in una spaventosa repressione del movimento No Global. Un monito per le giovani generazioni successive, un avvertimento ad abbandonare le battaglie, ad adeguarsi senza residui a quella cultura del consumo già impostasi negli anni ’80, ma che, assieme alla recente rivoluzione social, finirà per piegare una volta per tutte ogni forma di aggregazionismo giovanile miltante, creativo e contestatario. Se oggi lungo le strade delle nostra città sono tornate le bande giovanili e vediamo soltanto i maranza, non dobbiamo stupirci: le generazioni a cui toglieremo ogni battaglia sapranno solo adorare le marche. Non sanno né di strada, né di periferie in fiamme. I disadattati senza stile ce li meritiamo.
MinimiTermini

Andrea Olivieri, goriziano, si è laureato molto tempo fa in filosofia all’Universi tà di Trieste, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Estetica con una tesi sulla natura dell’immagine e sull’immaginazione nella filosofia moderna. Ha pubblicato articoli di ricerca filosofica su riviste di settore. Professore di Filo sofia e Scienze umane presso il Liceo delle scienze umane “S. Slataper” di Gorizia, ascolta e vive rock’n’roll da quasi mezzo secolo.


Lascia un commento