Prima di entrare in Provincia, lavoravo in una piccola società di consulenza che, tra i suoi servizi, offriva ai clienti anche corsi di formazione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. I corsi consistevano in una serie di filmati a tema che proiettavamo direttamente presso le ditte e che si concludevano con un test di apprendimento a risposta multipla.
C’era questa ditta, una carpenteria, che era la spina nel fianco del mio titolare. I suoi soci, due energumeni che la natura aveva dotato di pollice opponibile per mero incidente genetico, avevano un’idea dell’ambiente di lavoro da inorridire. Per loro, un lavoratore sano era un lavoratore in grado di respirare e cose come la prevenzione dei rischi e la sorveglianza sanitaria erano frivolezze dei tempi moderni. I dipendenti non erano da meno: dei soggetti che sembravano tutti appena evasi da un carcere di massima sicurezza. Ce n’era uno, in particolare, che mi terrorizzava. Era la copia incattivita di Jake “la Furia”, non quello dei Club Dopo, il personaggio di Temuera Morrison in Once were warriors.
Un giorno, il mio titolare mi disse che dovevo andare da solo in azienda a fare il corso di aggiornamento sulla sicurezza perché lui non poteva. Quella notte non chiusi occhio. Quando mi presentai lì, il capo turno mi accompagnò nella saletta che avevano allestito con la televisione e il videoregistratore, dove mi aspettavano i dipendenti. Senza dire una parola perché avevo un nodo in gola, infilai la cassetta nel videoregistratore e, ovviamente, il filmato non partì al primo colpo. Tra le risatine dei colleghi, uno di loro mi si avvicinò da dietro. Ecco fatto, pensai, è finita, morirò in questo cesso di fabbrica, con la gola tagliata, tra le risate di questi energumeni. Invece il tipo si mise ad armeggiare coi cavi, in silenzio, finché sul televisore non comparve la schermata iniziale del corso. Lo ringraziai e lui mi sorrise con aria impacciata prima di tornare al suo posto.
Feci andare la videocassetta e mi accorsi che più andavamo avanti più Jake, che fino a quel momento era stato abbastanza tranquillo, si agitava: si distraeva, imprecava, faceva battute sconce coi colleghi e un certo punto mi disse letteralmente di spegnere quella merda e di lasciarli tornare al lavoro. Non la vedevo bene, ero quasi sul punto di interrompere il corso quando arrivò uno dei soci, un uomo grosso il doppio di Jake e più cattivo, che con un’occhiata fece tornare il silenzio nella stanza. In quel momento invidiai il suo potere, che gli permetteva di ottenere il rispetto di quegli uomini con la sola presenza. Si era imposto su Jake con una occhiata, che non disse più una parola fino al momento dei test di apprendimento.
Quando distribuii le cartelline coi fogli, Jake mi restituì il suo dicendo che lui non avrebbe perso tempo con quella merda. Cercai di spiegargli, col tono di voce più calmo possibile, che erano obbligatori ma non sembrava che la cosa lo turbasse. Il titolare, che doveva avere una specie di sesto senso per i momenti di stallo, rientrò nella stanza e chiese se c’erano problemi. Jake mi risparmiò l’ansia di puntare il dito su di lui, ammettendo che non intendeva fare il test. Si capiva che opporre la sua volontà al titolare lo metteva a disagio perché ne evitava lo sguardo, teneva le braccia incrociate sul petto e si agitava sulla sedia. Il titolare, dal canto suo, prese la cartellina e gliela sbatté addosso sovrastandolo col suo corpo, accompagnando il gesto con un misto verbale di blasfemia e intimidazione che sortì l’effetto desiderato.
Jake iniziò a scrivere il suo nome sul foglio.
Scriveva lentissimo, con una grafia incerta ed elementare. Quando iniziò con le domande sembrava che contasse le lettere delle parole con la punta della matita. Gli tremavano le mani, aveva la fronte imperlata di sudore e imprecava tra i denti.
Non so dove trovai il coraggio di parlare ma lo trovai e dissi che potevamo fare una cosa: avrei letto io ad alta voce le domande e le risposte e poi, insieme, avremmo scelto quella giusta. Così, dissi, avremmo imparato tutti qualcosa. Jake mi guardò, guardò i suoi compagni a cui la proposta sembrava indifferente e annuì, dicendo che a lui stava bene. Lo schema sociale di cui ero stato parte mio malgrado fino a un attimo prima, basato su una scala di dominanza della quale occupavo l’ultimo gradino, aveva ceduto il posto a qualcosa di diverso e inedito. Eravamo passati da una situazione nella quale non avevo margini di azione e dipendevo dalla capacità intimidatoria del titolare ad una nella quale io e Jake stavamo a modo nostro collaborando. Addirittura, Jake agiva da regolatore dei comportamenti del gruppo, per esempio quando trascendevano e non si sentiva quello che dicevo. Vorrei chiarire, prima di proseguire, che non eravamo diventati amici: eravamo solo riusciti a instaurare in qualche modo una dinamica di tipo collaborativo.
Domanda dopo domanda, la mia percezione della situazione cambiò e iniziai a pensare che tutto sommato avevo buone possibilità di uscirne vivo. Scherzi a parte, quel giorno imparai una serie di lezioni che mi porto dentro ancora oggi. La prima è che ognuno di noi deve trovare il suo modo di relazionarsi col mondo senza imitare quello degli altri; e questo non per una pretesa di originalità a tutti i costi ma perché ogni modo è espressione delle caratteristiche del singolo individuo. Le mie, quel giorno, m’imponevano di rinunciare all’idea di competere fisicamente con quegli uomini e di cercare di ottenere la loro attenzione in un altro modo. Non dico che sia sempre possibile, sicuramente esistono situazioni e soggetti in cui il dialogo e la collaborazione sono impossibili, ma in quella lo furono grazie a un’intuizione che non avrei avuto se non fossi stato abituato a osservare le persone. La seconda lezione discende dalla prima e riguarda l’empatia. In certi contesti è considerata una debolezza ma fu grazie alla mia capacità di provare empatia che potei comprendere il disagio di Jake e aiutarlo, ottenendone in cambio l’attenzione. La terza è il compendio delle prime due e riguarda il fatto che in determinati contesti, la collaborazione supera la competizione. Che poi non lo dico io ma Robert Axelrod, professore di matematica dell’Università del Michigan ed esperto della teoria dei giochi, il quale dimostrò che nei cosiddetti giochi a somma non zero, dove il guadagno di un giocatore non necessariamente corrisponde alla perdita di un altro giocatore, vince la collaborazione.
Col senno di poi, mi rendo conto che la mia percezione dei fatti era influenzata dalla mia mia paura e dalla mia insicurezza, condizioni alle quali iniziai a rimediare in parte proprio quel giorno, realizzando che per essere più sicuro non dovevo imitare gli altri ma cercare la forza di cui avevo bisogno dentro me stesso, preparandomi all’eventualità che quanto avrei trovato poteva non essere il tipo di forza in cui speravo. Al limite, per il resto, potevo sempre iscrivermi in palestra.
Da allora sono passati vent’anni e mi capita ancora, ogni tanto, di incrociare Jake in giro. Le prime volte mi salutava, ora sembra che non mi riconosca. Non che m’importi, a me basta sapere che quel giorno ho fatto una cosa utile per entrambi, aiutando me stesso a capire che tipo di persona volevo essere e togliendolo lui dall’imbarazzo di ammettere le sue difficoltà davanti ai suoi colleghi.
A volte, basta poco.
A me, bastò questo.



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