Non ho mai avuto paura di invecchiare; al contrario, per molto tempo l’ho desiderato. Ricordo persino il momento in cui questo desiderio ha preso forma dentro di me. Avevo da poco iniziato a lavorare ed ero stato invitato a un pranzo di lavoro col mio capo dell’epoca. Il nostro ospite era un imprenditore friulano di spicco, un uomo che da oltre quarant’anni rappresentava un punto di riferimento assoluto nel suo settore. Avere l’opportunità di parlare con lui era un privilegio. Parlammo a lungo, e alla fine mi disse: “Sei bravo, ma sei giovane.”
Lo disse con la naturalezza di un dato di fatto, come se la giovinezza fosse un limite alla mia credibilità, una barriera invisibile da superare per essere preso sul serio. Quella frase si piantò nella mia testa come un chiodo.
E fece ruggine.
Per anni, desiderai raggiungere almeno i cinquant’anni, convinto che fosse l’età giusta per affermarmi senza riserve. Il tempo è passato, sono ormai prossimo al traguardo e forse per la prima volta ho iniziato a interrogarmi davvero sul senso dell’invecchiare. Non perché il passare degli anni mi preoccupi in sé, ma perché ho cominciato ad avvertirlo in modo diverso. Me accorgo ogni volta che mi arriva la notizia della scomparsa di qualcuno che aveva fatto parte della mia infanzia. Da bambino, gli adulti erano presenze stabili, figure che appartenevano all’intersezione tra il mio mondo e un’altro, parallelo al mio, popolato dai genitori dei miei amici, dagli amici dei miei genitori, insegnanti, vicini di casa. Non li vedevo come persone destinate a scomparire, erano semplicemente parte dello sfondo dentro cui si muoveva la mia giovinezza.
La morte dei miei genitori ha rappresentato il primo grande strappo. Ogni ulteriore perdita ha portato con sé una consapevolezza più profonda del fatto che non se ne va solo una persona, se ne va anche il pezzo di me che a lei era legato. È come se ogni addio portasse via un pezzo del bambino che ero stato. Il mio amico Peppe una volta mi ha detto che proiettiamo sugli altri parti di noi stessi. Forse è così che funziona l’infanzia: è sparsa tra le persone che abbiamo incontrato, e invecchiare significa assistere, impotenti, allo sgretolarsi di quel mondo, senza tuttavia restare a contemplarne le rovine, ancorati a qualcosa che non esiste più.
Crescere, infatti, non è solo perdita. Ogni frammento di passato che ci lascia apre inevitabilmente spazio a qualcosa di nuovo: nuovi legami, nuove prospettive, nuove possibilità e nuove responsabilità. Accettare il cambiamento non significa dimenticare ciò che è stato, ma riconoscere che il mondo intorno a noi continua a modellarsi. Alcune di queste cose le scegliamo consapevolmente, altre ci vengono incontro senza che possiamo evitarle. Ma è in questa continua trasformazione che risiede il senso del nostro cammino.
Non crescere significherebbe restare immobili. Accogliere i cambiamenti e le novità è un processo volte doloroso. Io, per esempio, sono profondamente abitudinario. Persino il pensionamento del mio tecnico della caldaia mi ha lasciato un senso di scombussolamento: mi aggrappo all’idea che certe cose possano restare immutabili, ma la realtà si incarica sempre di dimostrarmi il contrario.
Forse questa è la mia sfida attuale: imparare a fare i conti con il mondo che cambia, non limitandomi ad accettarlo, non con rassegnazione ma con la curiosità di scoprire chi posso diventare in questa nuova fase della vita. Crescere significa lasciare andare, ma anche saper riconoscere quello che vale la pena trattenere affinché non si perda. È la parte più difficile da imparare.
MinimiTermini


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